Capitolo III

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Cominciavo a convincermi che mio padre mi stesse evitando. Erano tre giorni che, la mattina, cercavo di seguirlo fuori dalla capanna, solo per essere ricacciato dentro con un "Farai meglio a badare ai tuoi fratelli, te lo assicuro" minaccioso. Erano tre giorni che non mi ero neppure permesso di sbuffare. Tornava la sera, sporco e con qualche graffio qua e là, ma non ne voleva sapere di dirmi cosa stessero facendo lui e il resto delle truppe. Mi chiedeva se c'erano stati problemi durante la giornata, scuotevo la testa (che ce ne fossero stati o meno) e mi cacciava a letto con un ordine secco.

La mattina del quarto giorno cercai di nuovo di seguirlo: avevo indossato le collane, la visiera, avevo affilato le frecce e lucidato l'arco. Ero pronto all'assegnazione dell'incarico, ero il capitano della squadriglia minore, in fondo, c'era sicuramente bisogno di noi per qualcosa, qualunque cosa. La mancanza di dialogo di mio padre mi esasperava, specialmente dopo le parole di quattro giorni prima.

Era stato lui a nominarmi capitano, lui a scegliere quale squadriglia affidarmi, lui a insistere che mi prendessi qualche responsabilità in più. Certo, io l'avevo desiderato dal momento in cui ero salito per la prima volta sul mio Ikran, certo, l'avevo supplicato e pregato in italiano e in Na'vi giorno e notte, facendo i salti mortali per provare di essere all'altezza, ma in fondo era stato lui ad accettare di delegarmi l'incarico, lui a dirsi fiero di me quando finalmente me lo ebbe dato. Era un'ipocrisia, nella mia mente, che davvero pensasse le parole sibilate quella sera: Forse non sei pronto per essere capitano. Ci stavo perdendo il sonno. Forse per questo quella mattina fui pronto ad uscire prima di lui e poté piazzarmi davanti alla porta, piuttosto che seguirlo ansimante all'uscio.

Mio padre arrivò all'ingresso, si accigliò: "Non ci pensare neppure, Neteyam." Il suo tono era severo, seccato perfino, ma non arrabbiato. Osai alzare gli occhi al cielo, con uno sbuffo. "Signore ma non è giusto" Ribattei.

Vidi il sopracciglio di mio padre alzarsi. "Fingerò di non aver sentito" Mi rispose, la sua voce sempre più irritata. Prese il suo fucile e fece per scavalcarmi: "Bada ai tuoi fratelli" Era un'ammonizione, non una richiesta, ma, sul momento, ero troppo furioso per accorgermene.

Schioccai la lingua. "Sono un soldato come te!" Mancava poco che strillassi. Ero stufo di pulire il moccolo di Tuk, di fermare Lo'ak ad ogni idea stupida, di sopportare il caratteraccio di Kiri e i "Bro" di Spider, per quanto bene potessi volere a tutti loro. Volevo tornare ad aiutare il mio popolo, volevo che mio padre mi vedesse di nuovo come il guerriero che ero, piuttosto che come un bambino. "Ho superato la cerimonia e tu mi hai assegnato il compito di-"

"Neteyam." Mio padre mi richiamò, fermo. Fece un passo verso di me, chinandosi alla mia altezza. Il sangue mi ribollì ancora di più nelle vene. Pensava davvero fossi un bambino? "È più importante per me che questa famiglia sia al sicuro, che tu sia al sicuro..." Mi poggiò una mano sulla spalla, ma lo scacciai con violenza: "Sono in punizione, signore?" Chiesi, con un sibilo arrogante. Lontano da casa un tono del genere mi sarebbe costato uno scapaccione memorabile: mio padre mi scoccò un'occhiataccia, rialzandosi. "Non sei in punizione, ma-"

"E allora perché cazzo non vuoi che voli con te?! Sono un guerriero come gli altri e sono il capitano della-"
Prima che potessi finire la frase, lo schiaffo che mi spettava si schiantò sulla mia guancia: il resto della casa dormiva e il gesto sarebbe rimasto, in fin dei conti, tra noi. Storsi il naso, e mi morsi la lingua. "Non osare più interrompermi così" Deglutii. Ero decisamente oltre il limite. "Non sei in punizione, ma stavolta l'hai fatta, l'avete fatta, veramente grossa. Sto rivalutando la tua idoneità alle missioni militari: non voglio tu sia un pericolo per tè stesso o per gli altri." Provai a ingoiare la rabbia che quelle parole mi causavano, ma fallii. "Papà non è giusto io non ho mai fatto un passo falso fino ad ora e tu-"

"Non voglio sentire polemiche, Neteyam. Il fatto che tu non riesca a gestire tuo fratello in una missione mi fa mettere in dubbio la tua abilità nel gestire altri quindici uomini" Provai di nuovo a parlare, solo per essere zittito: "Uomini con molta più esperienza e molti più motivi per disobbedire. Ho bisogno di tempo per prendere la decisione giusta."
Tirai su con il naso, a quel punto. Ricordo ancora lo sguardo che mio padre mi riservò: pena e rabbia insieme, amore e disciplina. Avevo le lacrime agli occhi, ma in quel momento mio padre era il mio comandante: non mi avrebbe abbracciato. "Quindi per il momento resterai sospeso dall'incarico di capitano-"
"Cosa?! Ma papà-" Qualsiasi risposta era inutile:
"Resterai sospeso e baderai agli altri!" Tuonò. Io abbassai la testa, seppur sbuffando. "Sono stato chiaro, Neteyam? Qualsiasi insubordinazione ti costerà l'incarico e le chiappe. Guardami!" Alzai lo sguardo di nuovo su di lui, incapace di calmarmi. Bollivo di rabbia. "Sono stato chiaro?!" Mio padre vedeva la mia rabbia, la mia voglia di disobbedienza, dagli occhi. "Sissignore." Quasi sputai le parole. Gettai il mio arco a terra, ai piedi di mio padre, e me ne tornai al mio incavo, sbattendo i piedi, come il bambino con cui mio padre pensava di avere a che fare.

Feci così tanto rumore da svegliare Tuk. Mio padre accennò a seguirmi, a prendermi per la coda e a finire la ramanzina, ma Tuk lo chiamò dal suo pagliaccio: "Papà?"

Era stata una litigata violenta, ero sorpreso fosse l'unica ad essersi svegliata. Mi infilai di nuovo nel mio incavo, ignorando mio padre che tranquillizzava Tuk e usciva dalla capanna, senza rivolgermi più la parola.

Se avessi perso la carica, pensai, avrei ucciso mio fratello. Sapevo già, poi, che non l'avrei mai fatto. Imprecai tra i denti e mi continuai a rigirare nel pagliericcio, incapace, ovviamente, di tornare a dormire.

THE ELDEST -atwow con gli occhi di Neteyam Sully-Tahanan ng mga kuwento. Tumuklas ngayon