Capitolo XXXIX

224 14 7
                                    

Tornai alla capanna di Aonung come un cane bastonato, talmente ferito da non riuscire neppure a piangere le lacrime che mi riempivano gli occhi.
Non mi sarebbe bastato un miracolo per tornare a casa, non mi sarebbe bastato salvare la vita di Kiri o quella di Tuk o quella di Lo'ak. Non sarebbe bastato nulla, nulla sarebbe servito. Ero perso per sempre, costretto lontano, e nulla che avessi potuto dire o fare avrebbe mai cambiato nulla.

Ronal mi spinse dolcemente fino al salotto della loro capanna, al riparo dal vento salmastro che soffiava violento e burrascoso dal mare. Ricordo distintamente la sensazione delle mie ginocchia che urtavano contro il pavimento, del mio peso che rovinava sulle mie gambe, appena entrati. Le gambe non erano più in grado di reggere il mio peso, nel petto si azzuffavano l'adrenalina per lo scontro appena scoppiato, il rimpianto per ogni mia parola, la disperazione della nuova solitudine.
Ogni figlio si aspetta, a volte per tutta la vita, di essere ripudiato dal proprio padre: i conflitti scoppiano quasi naturalmente, il fuoco e le fiamme eruttano dai due come da vulcani e con ogni anno che passa, con ogni ruga che riga la faccia del padre, il figlio sa di somigliargli sempre di più, sa che, un giorno, di lì a poco, somiglierà così tanto al padre da portarlo a ripudiare, con lui, la parte peggiore di sé. Nessun figlio si aspetta questo dalla madre. Forse una figlia, una donna, ma un figlio... Si aspetta di essere amato e cullato da quelle braccia sempre più esili per una vita intera, e poi ben oltre la morte. Ed invece io ero proprio lì, accasciato sul pavimento di una capanna quasi estranea, privo di madre, come non avevo mai pensato di poter essere. Anche lei mi odiava. E se lei mi odiava quello che stavo facendo non poteva essere giusto.
Ricordo che scoppiai in lacrime, singhiozzando e reggendomi lo stomaco come le viscere fossero sul punto di schizzarmi fuori dalla pancia. Ricordo il tocco di Ronal, qualche parola che mi disse, distante. Ricordo che fui inconsolabile.
Deliravo e balbettavo parole incoerenti: "Mamma-io-Eywa, Eywa, Eywa" Pregavo, ma anche Eywa mi odiava e nulla calmava il dolore che mi lacerava il petto, la gola, lo stomaco. L'abbandono mi divorava dall'interno. Solitudine. Disperazione. Pensai che Payakan dovesse aver provato lo stesso, ma non ero Lo'ak e non potevo condividere il mio dolore neppure con quel Tulkun.
Singhiozzavo.
Aonung entrò d'improvviso, spalancando la porta con apprensione,  Tsyreia che lo seguiva con il fiatone. Alzai la testa, voltandomi di scatto, ma non smisi di piangere neppure quando lo vidi.
Eppure era splendido: la pelle umida riluceva del tramonto alle sue spalle, oltre l'uscio della porta spalancata, le gocce d'acqua incastrate fra i suoi riccioli brillavano dorate e facevano danzare la luce fra i suoi capelli, che già cascavano disordinati davanti ai suoi occhi. I suoi occhi blu erano pieni di lacrime, ma non erano della stessa sostanza delle mie.
Si gettò in ginocchio, accanto a me, mi prese il viso fra le mani.
Le sue mani callose e corrose dal sale riuscivano a contenere la mia faccia intera.
Poggiò la sua fronte contro la mia, inspirando forte dal naso, e solo allora mi accorsi che tremava di rabbia.
Per qualche motivo, con quel contatto, il mio pianto si calmò.
"Dimmi una sola parola e gli rovino la vita" Aonung sussurrò. Parlava di mio padre, mi diceva di dargli il permesso di vendicare il mio dolore, di far soffrire l'uomo come Jake stava facendo soffrire me.
Chiusi gli occhi, inspirai, riempiendomi del sapore di Aonung, del suo respiro, del suo odore salmastro. Mi sarebbe bastato annuire e Jake non sarebbe più stato un problema, e con lui, ovviamente, neanche Neytiri. Una parola, e avrei potuto vivere felicemente senza di loro, dimenticando il loro odio, rimpiazzandolo con l'amore del clan che Aonung avrebbe fatto piovere su di me.
Fui sul punto di dirla.
Ma poi il visino di Tuk, alla mente, sorridente di quel sorriso sdentato e adorabile che avrebbe avuto ancora così per molto poco.
Ma poi la risata di Kiri e i suoi capelli selvaggi e le sue pietre nelle tasche.
Ma poi perfino gli occhi gialli di Lo'ak che si illuminavano di furbizia, e poi di colpa, le sue parole gridate e le sue risate scomposte.
Fui sul punto di dirla, poi mi resi conto che mandare via Jake, mandare via Neytiri, voleva dire perdere i miei fratelli per sempre.
Chiusi gli occhi, di nuovo i singhiozzi mi scuotevano.
Aonung lasciò che la mia testa cadesse fin contro il suo petto, mi carezzò i capelli intrecciati e continuò a sussurrarmi che sarebbe andato tutto bene, alternato a dei "Io lo ammazzo se cerca di metterti di nuovo le mani addosso" e dei "Hai fatto la cosa migliore, Teyam, Kiri non ce l'avrebbe fatta". Aonung era un'altalena di emozioni tanto quanto lo ero io.
"Io sono fiero di te" Continuò a sussurrare tutta la notte. "Lo sono anche mia madre e mio padre" Mi cullò fra le sue braccia dopo che Ronal e Tonowari furono andati a dormire, fino all'alba. "Sei eccezionale, e se Jake o Neytiri non se ne vorranno rendere conto, peggio per loro: Eywa farà giustizia dove non possiamo noi"
"Eywa-Ey-Eywa-Eywa" Continuai comunque a pregare. Il dolore non passò.
Fui inconsolabile.

Eppure quella sera passò, e così il giorno successivo e la sera successiva. E così le settimane successive.
Il tempo mi parve dilatarsi, allungarsi e raggomitolarsi su sé stesso come facevano le corde delle reti che intrecciavo minuto dopo minuto, ora dopo ora, giorno dopo giorno. La notte avevo smesso di dormire anche quel poco che prima dell'incidente mi era riuscito. Mangiavo poco, parlavo perfino meno, e raramente in frasi coerenti. Aonung aveva preso l'abitudine di raggomitolarsi accanto a me come il tempo e le corde e i miei pensieri, mentre lavoravo alle reti, in silenzio perché le lacrime non mi riempissero gli occhi: poggiava la testa sulla mia spalla, le gambe penzoloni dal pontile, e mi carezzava le gambe nude, la pelle arsa dal sole e dal mare.
I giorni passarono, fra un mestiere ed un altro, senza una parola da Jake, o una da Neytiri.
Non osavo avvicinarmi a Kiri, a Tuk, a Lo'ak, paralizzato dalla sola idea di dover incrociare di nuovo lo sguardo di mia madre come lo avevo visto l'ultima volta.
Mi mancavano come l'aria. Eppure quando l'intero villaggio uscì a festeggiare il ritorno dei Tulkun, rimasi nella mia barchetta, dondolando sulla marea, terrorizzato all'idea di vedere la mia vecchia famiglia: dallo sguardo di Neytiri, dalle mani di Jake, ma (me ne accorsi molto presto) anche dall'idea che ben presto anche Kiri, anche Lo'ak, perfino Tuk mi avrebbero guardato in quel modo, anche loro disgustati di vedermi in vita, in quelle condizioni.
Quel giorno non uscii, e così le settimane successive: chiuso nella barca, come un naufrago che tema di perdersi in un'isola già deserta.

THE ELDEST -atwow con gli occhi di Neteyam Sully-Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora