2.10

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Ponderata

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Ponderata.

Se Saran si fosse dimostrata ponderata tutto sarebbe andato per il meglio. Lo aveva promesso a suo padre e non voleva deluderlo. Non ora che aveva modo di dimostrare quanto fosse capace e assennata. Non ora che aveva modo di riscattarsi dagli sbagli commessi in passato. Voleva ripulire il suo nome, e ci sarebbe riuscita, un giorno.

Come un giorno si sarebbe impossessata nuovamente della tecnica.

Superò una delle ultime dune e si ritrovò davanti alla Grande Oasi del Tarim, luogo in cui si riunivano tutti i khan delle tribù durante i periodi di grande tumulto, come quello. Aveva saputo per vie traverse della diatriba che aveva convolto Ogodei e Tomur Khan, e in fondo ne aveva gioito. Avrebbe avuto due uomini in meno a cui tener testa.

Saran smontò da cavallo e lo mandò dentro ad un vasto recinto, sentendo già gravare il peso di quella situazione sulle spalle strette, con gli uomini fidati dei khan che circolavano attorno al bacino di acqua limpida. Nonostante Saran avesse sete, non voleva mostrarsi debole, né mescolarsi a semplici guardie, perciò si diresse verso la gher che copriva un perimetro circolare. Un roboante vociare scuoteva i lembi di feltro, mentre due uomini erano rimasti di guardia con un paio di sciabole infoderate strette nella mano sinistra.

«Fatemi passare.»

Uno di loro sghignazzò, guardandola da capo a piedi con un certo disprezzo. La testa rasata terminava con piccole trecce attaccate dietro la nuca, scosse dal vento. «Il khurultai non è luogo dove tutti possono entrare.»

Saran sorrise, con falsa cortesia, e sfilò dalla veste nera e rossa un dente di lupo, simbolo identificativo che suo padre le aveva detto di usare come lasciapassare. «Infatti, io non sono tutti. Mi chiamo Saran, sono la figlia unigenita di Adai khan. Avrete sentito parlare di lui.»

«Razza di idiota, non vedi che è un membro della tribù degli Shonin?» gracchiò la guardia accanto, che aprì subito il lembo della tenda.

Saran non badò ai tremori di entrambi. Era un bene che soltanto il nome della sua tribù incutesse un certo timore, per quanto le voci sulla loro improvvisa debolezza si fossero sparse. Loro restavano sempre gli Shonin, il terrore del deserto. Al loro passaggio i Cieli piangevano sangue.

O meglio, avrebbero dovuto.

Non appena varcò la soglia, Saran si ritrovò in un luogo colmo di ricchezze. Cuscini di seta, tappeti persiani, brocche di vino il cui odore si era già sparso in aria. E i vari khan che avevano preso a confabulare tra loro, prima che si desse avvio al khurultai.

Alcuni indossavano vesti semplici, sguarnite da qualunque decorazione, mentre altri esibivano anelli e tatuaggi lungo le braccia. Solo uno di loro sembrava rispondere alla descrizione del padre di Saran.

Un ragazzo dalla carnagione ambrata, il cui deel arancione era stretto da una fusciacca gialla che passava sui fianchi. Quel colore così luminoso: non poteva che essere Yul.

Cieli di Sangue - La nuova dinastiaHikayelerin yaşadığı yer. Şimdi keşfedin