74. Presente.

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4 giugno, ore 18.59

Buttai fuori l'aria rilasciando la tensione accumulata da quell'ennesimo viaggio spazio-temporale in cui ero stata costretta a dire addio ancora una volta.

I miei genitori non sarebbero stati altro che l'ennesimo ricordo che avrei custodito gelosamente nella mia memoria fintanto che avrei potuto continuare a combattere.

Lo sgabello sul quale Noora aveva posato le sue membra era in mezzo la stanza, ma senza più lei a sedersi. Come un fantasma, sembrava che fosse semplicemente scomparsa.

«Siamo ancora qui?» domandò Lake incerta.

Nonostante ci trovassimo nella medesima cucina della casetta di periferia degli Holland, percepii la sottile differenza tra quella che era e ciò che era diventato quel posto privato troppo presto dei suoi legittimi proprietari.

La persiana rialzata, la finestra lasciata semiaperta, i bicchieri di cristallo sul lavabo e una bottiglia di bourbon senza tappo a giacere sul bancone di legno massello.

Lui era lì.

«C'è qualcosa di diverso... che giorno è?» Domandò Colton allo scoccare dell'ora esatta. L'orologio a pendolo li fece voltare spaventati.

I miei occhi si mossero verso la spalliera all'ingresso. La giacca grigia da cerimonia era appesa.

«Quattro giugno. Poco meno di dieci ore fa seppellivamo i nostri genitori e James veniva rapito dai ribelli.» dissi austera nel tono.

Feci qualche passo in direzione della scalinata centrale osservando in tralice mio fratello. Posai una mano sulla balaustra intenta nel voler salire al piano superiore.

«Come facevi a sapere che-?» chiese James interrogativo.

Incurvai un angolo della bocca con rammarico. «Aveva detto che sarebbe tornato a casa. Ci stava aspettando...»

All'improvviso avvertimmo una porta venir richiusa e l'uomo che corrispondeva allo zio Thom correre trafelato i primi gradini con un bicchiere di vetro racchiuso tra le sue dita e privo di alcun contenuto.

Allungò un braccio in avanti con andamento instabile. «Finalmente siete arrivati!» singhiozzò alzando lo sguardo al cielo. «Stavo iniziando a preoccuparmi, dove diavolo vi eravate cacciati?» aggiunse prendendo aria.

Mi raggelai all'istante, non riuscendo a compiere un solo passo. Lui era in pensiero per noi?

«Siamo finalmente a casa» commentai commossa. Da quando avevo intrapreso il viaggio del destino non mi ero mai voltata indietro. Solo in quegli istanti mi resi conto di cosa avessi lasciato a New York, credendo erroneamente che nulla più mi era rimasto.

«Lo credo bene, signorina! E tu, James, non potevi dissuaderla? Stavo venendo a cercarvi!» L'uomo scosse il capo decidendo di ingoiare la saliva amara, mentre ricercava qualcosa nelle tasche.

«Non potevamo, zio... sono successe tante cose che-»

Scese il primo dei diversi gradini di legno massello, affilando le palpebre e interrompendo mio fratello. «Chi sono i vostri amici?» chiese senza mezzi termini.

«Siamo la squadra alpha, signore. Piacere di conoscerla, la stavamo cercando perché-» Colton fece la prima mossa, era suo dovere in quanto nuovo portavoce. Si morse la lingua, trovando spiacevole dover proferire quei termini senza che lui fosse presente.

«Fantastico! Voi eravate con il vostro gruppetto a fare baldoria e io a preoccuparmi per voi!» levò un grido mantenendo la mascella serrata.

«Zio...» trattenne un labbro tra i denti correndo giù dalla scalinata non volendo sapere di ascoltarci. Ci passò accanto senza veramente osservarci, ricercando qualcosa con cui calmare il rumore che nella sua testa gridava a gran voce il nome di mio padre.

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