02. Da grigio a rosso sangue.

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1° giugno, ore 15.57

Misi piede a casa che era tardi: dovevo fare ritorno al campus il prima possibile. Avevo bisogno solo di prendere alcune ricerche che avevo "sbadatamente" dimenticato. Mi sarei incontrata con Katarina e James in biblioteca. Il nostro gruppo di studio era affiatato, come anche la complicità tra i due ragazzi. Lasciargli del tempo per stare da soli era un'abitudine che collimava con il pensiero che tra di loro ci fosse qualcosa di più di una semplice amicizia.

Sorrisi contenta per entrambi.

«Sono a casa, papà!» urlai spalancando la porta d'ingresso e richiudendola con un piede come ero solita fare. Sarebbe stato necessario olearla: non produceva un bel suono. Allungai le chiavi sul tavolino accanto all'ingresso dirigendomi imperterrita verso la sala da pranzo e continuando a richiamare i miei genitori.

Non ricevetti risposta, ma individuai mio padre. Statuario e immobile, mentre fissava il vuoto davanti a sé. Aggrappato alle inferiate del caminetto i suoi occhi avevano perso il colore che li contraddistingueva e i miei non smisero di domandarsi il perché.

«Papà...» ripetei avvicinandomi a lui. L'uomo sobbalzò ponendosi dritto sulla schiena. Non sembrava essersi spaventato, ma qualcosa nel tono della sua voce mi parve del tutto innaturale.

«Dely, tesoro, cerchi per caso questi?» mi domandò con un sorriso e allungando una mano verso il blocco di appunti che avevo fatto stampare in precedenza.

«Mi conosci come le tue tasche!» scherzai accogliendo il frutto del duro lavoro. Con la coda dell'occhio mi parve di notare un cipiglio nascere sul suo volto.

«Tutto bene?» domandai preoccupata. «Non è che hai la febbre? Vuoi che resti?» proposi avvicinandomi e lasciandogli un bacio a fior di pelle sulla fronte. Aveva una temperatura nella norma. Il viso gli si rasserenò di colpo.

Socchiuse gli occhi inspirando profondamente. «Tranquilla, tesoro, sono solo un po' stanco. Sono felice che tu sia passata, avevo solo bisogno di vederti. Sei il sole che mi scalda l'animo» confessò il mio vecchio lasciandomi a sua volta un bacio tra i capelli, abbracciandomi e inspirando tra i miei capelli. Ricambiai il gesto affettuoso.

«E tu il mio porto sicuro.» Sorrisi mostrando le fossette. Il suo sguardo si addolcì.

«Ricordati sempre che se dovessi mai essere nei guai o avresti bisogno di me, io sarò qui per te. Esattamente come adesso, per sempre.» Mi scrutò in volto per far sì che recepissi il messaggio.

Scossi il capo sicura. «Me lo ricorderò, promesso! Vado a salutare anche Noora e poi corro al campus.» Mi bloccò il polso prima che potessi fare anche solo un passo. Mi voltai stupita, non andavo mai via senza dire nulla.

«Non c'è bisogno, tesoro. La saluterò io per te.» Annuii stranita acciuffando la mia borsa per la tracolla. Una volta sull'uscio della sala da pranzo mi sentii richiamare.

«Ti voglio bene, tesoro. Buona giornata!»

«Te ne voglio anche io!» Lasciai che la sua immagine solitaria venisse pian piano sostituita dal freddo muro d'ingresso. Che il suo sorriso venisse bagnato da delle lacrime silenziose.

Impressi nella mia mente quel momento. Grigio, come tutti i secondi che avevano caratterizzato la mia vita.

Mi allontanai da casa stringendo a me la borsa e lasciando che il vestito verde di lino svolazzasse leggero a causa del bel tempo.

Vicina all'entrata dell'università, avvertii una strana scossa. Mi osservai attorno guardinga, notando dal riflesso della porta a vetri una figura femminile alle mie spalle. Misi a fuoco tramite lo specchio la sciarpa troppo pesante per la bella stagione e il paio di occhiali spessi.

Mi voltai di colpo nella speranza di incrociala, ma di lei non c'era più traccia. Forse era stato tutto scherzo della mia mente. Nel via vai generale venni riportata alla realtà da stormi di studenti troppo impegnati per poter aspettare i miei tempi.

Scossi il capo dirigendomi verso la biblioteca, dove il mio fratellastro e Katerina mi stavano aspettando, ignorando quella strana sensazione che si stava facendo strada dentro di me.

***

1° Giugno, ore 17.05

Realizzai come il fragile equilibrio della vita potesse essere spezzato in un solo istante, per un singolo avvenimento. Tutto aveva perso di significato. Sapevo, nel tempo in cui il mio cuore perse un battito, che non sarei stata più capace di tornare indietro.

Non era più il momento... Era solo finita.

Io lo capii attraverso gli occhi di James, ancora intento a provare a rispondere alla polizia dall'altro capo del telefono. Lo capii quando si alzò allungandomi una mano per sorreggersi, sussurrando il mio nome. Lo capii quando corsi via dalla biblioteca in preda alla disperazione. Lo capii quando raggiunsi il cortile di casa, quando trattenni il respiro e tutto si bloccò per l'ennesima volta.

Fu quando James mi raggiunse che capii che la mia vita sarebbe cambiata per sempre e io non sarei stata più la stessa. Noi non lo saremmo stati.

«Dely, respira. Dely, ci sono io. Dely, resta con me. Non guardare, cazzo, Dely pensa a me, guarda me!» James urlava, ma io non lo avvertivo minimamente. Era lì, di fronte ai miei occhi spenti: era l'unica cosa che si frapponeva tra me e la nostra casa. L'unica cosa che si frapponeva tra me e i corpi dei nostri genitori trasportati su due barelle coperte da un orribile telo nero.

La sua voce risultò del tutto ovattata, mentre la porta d'ingresso veniva attraversata dal coroner e da un paio di poliziotti. C'erano almeno dieci agenti di polizia a circondare la zona e uno spesso nastro giallo con su scritto "DA NON OLTREPASSARE. SCENA DEL CRIMINE."

Quel quartiere tanto tranquillo aveva perso il silenzio che lo caratterizzava. Intorno a noi una folla gremita di curiosi ci sovrastò: i vicini, i lavoratori, gli studenti, tutti volevano assistere a quello straziante spettacolo.

Ero solo riuscita a superare quel confine, poiché le mie gambe non volevano saperne di muoversi. Né un passo in avanti, né uno indietro. Ero completamente paralizzata, bloccata nel vedere come la mia vita si era spezzata.

Fissai ogni secondo nella mia mente. Osservai lentamente il grigio divenire rosso, come il sangue che gocciolava da quei sacchi neri contenenti corpi senza vita. Non corpi qualunque. Il corpo di Noora. Il corpo di mio padre. Rosso sangue.

Quell'istante aveva il colore di morte.

Non potei fare a meno di continuare a osservare, dovevo sapere cosa sarebbe successo. Non smisi neanche per attimo, neanche quando la mano penzoloni di Noora mi passò di fianco. L'anello che indossava l'avevo aiutato a scegliere un giorno di quindici anni prima.

James provò a frenarmi, stava urlando disperatamente che me ne sarei pentita, che non avrei dormito per giorni. Ma come avrei fatto ad appisolarmi più? Come avrei potuto fare ciò a mio padre? Come potevo non salutarlo almeno un'ultima volta? Dovevo guardare, fino alla fine, all'ultimo istante. Glielo dovevo.

Ero stravolta e distrutta: le labbra secche non riuscivano a combaciare, mentre le mie mani erano strette da quelle di James con lo scopo di sorreggermi. Credevo che sarei svenuta da un momento all'altro, ma ciò non accadde. Forse ero più forte di quanto immaginassi.

Solo quando l'ultimo agente chiuse con un tonfo le porte dell'ambulanza, tutto ritornò al suo colore naturale.

Io caddi a terra di colpo come se tutta la gravità dell'azione mi avesse colpito all'improvviso. Ero in ginocchio stremata: il vestitino di lino risultava così inadatto e superficiale nei confronti di una scena così pesante sul mio cuore. Sentivo freddo da tutte le estremità del mio corpo. Sentivo freddo soprattutto dall'interno.

Mi portai le mani a coprirmi le orecchie iniziando a urlare. A pieni polmoni, con tutto il fiato che avevo. Era un urlo straziante. Anche un sordo avrebbe potuto percepire il mio dolore. Continuai stretta tra le braccia di James che pianse a sua volta, in un circolo, quasi senza fine. Si alternavano solo singhiozzi e respiri affannati. Raccolti l'uno tra le braccia dell'altra.

Avevano ucciso i nostri genitori e noi eravamo soli. In quel momento e per sempre, saremmo stati soli. 

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