Il bosco incantato

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20 dicembre, domenica.

Si coricarono ai margini di un bosco. Era stato Arlo a proporre di fermarsi, ma era chiaro che neanche i suoi compagni avevano alcuna voglia di addentrarsi lì in mezzo di notte. Non avevano mai visto alberi del genere: alti e sottili, dal tronco nero, contorto e spoglio, con le ramificazioni che crescevano solo in cima, a ombrello, e che si appoggiavano ai rami vicini come in un abbraccio complice. Sembrava che gli alberi si fossero uniti per creare una gigantesca rete pronta a calare su chi si avventurava tra loro.

Sciocchezze, naturalmente, che col buio, però, potevano apparire meno fantastiche.


Pola si svegliò di soprassalto. Si mise a sedere sul letto, nella stanza in penombra, con il cuore in gola, e si guardò intorno, incapace di dare un origine al suono che l'aveva sottratta al sonno. Quando finalmente capì che si trattava del trillo del telefono, si avventò sulla cornetta.

« Pronto! », disse trafelata.

« Pronto? », rispose una voce incerta. « Sei tu, Pola? ».

« Sì, Monica. Chi vuoi che sia? ».

« Non ti avevo riconosciuta. Hai una voce... ».

« Stavo dormendo ».

« A quest'ora? Non stai bene? ».

Pola accese la lampada e guardò la radiosveglia. Erano le cinque e un quarto del pomeriggio. « Sto benissimo. Mi sono messa a letto per un riposino e ho dormito più di tre ore, tutto qua. Non eri tu che sostenevi l'importanza del sonno per rimettersi in forze? ».

« Scusami se ti ho svegliato ».

« Figurati. Meglio così, anzi. Se dormivo un altro po' stanotte non avrei chiuso occhio ».

« Come va? Hai avuto febbre? ».

« Oggi neanche una linea. Sono fresca come un cefalo appena pescato ».

« In vena di battute, addirittura. Sono contenta. Ti ho chiamato perchè volevo passare a trovarti. Giacomo è andato al cinema con le bambine e io sono da sola ».

« Va bene, vieni pure. Anzi, no, aspetta. Vengo io da te, almeno esco un po'. Sono due giorni che sto rintanata in casa ».

« Sei sicura? ».

« Sì, ho bisogno di prendere un po' d'aria ».

« Allora ti aspetto ».


« Perché no? », chiese Monica.

« Di nuovo? Ogni tre, quattro mesi, torni alla carica con lo stesso argomento ». Pola sbuffò. « Lo sai, i nani non fanno per me. È inutile che insisti ».

« Ti odio, quando li chiami così ». Monica si alzò dalla sedia e si avvicinò al lavandino, dandole le spalle. « Nani », lo disse scuotendo la testa. « Come se fosse divertente ». Afferrò una moka, svitò la caldaia, tolse il serbatoio a imbuto e lo sciacquò sotto l'acqua per pulirlo dai resti di caffè. « Mi viene da pensare che chiami in quel modo anche Camilla e Sara. Non davanti a loro, certo, sarebbe troppo anche per te, ma quando ne parli con i tuoi colleghi. Quelle nane delle mie nipoti... ».

« Sai che non è così. Io stravedo per loro ».

« Allora pensa al bene che gli vuoi e moltiplicalo per dieci », esclamò Monica voltandosi. Aveva ancora in mano il serbatoio della caffettiera, che iniziò a gocciolare.

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