La famiglia prima di ogni cosa

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Le mie gambe si mossero avvolte in morbide lenzuola di seta. Ancora intontita per via del colpo, ci misi un po' prima di riattivare il mio sistema d'allarme e riuscire a ignorare quella piacevole sensazione d'intontimento. Poi aprii gli occhi e ricordai l'incubo dentro il quale ero finita. Avevo il naso rotto, e probabilmente anche l'uomo che avevo preso a testate. Questa era una magra consolazione.

Con mia grande sorpresa non mi trovavo dentro uno squallido scantinato che puzzava di umidità ed era abitato da scarafaggi. Attorno a me c'era solo buio, e un silenzio rotto appena dal lontano bubolare di un gufo che proveniva dalla portafinestra aperta. Le tende bianche, fiocamente illuminate dai lampioni all'esterno, svolazzavano all'interno della stanza, spettrali come fantasmi.

Il naso pulsava dal dolore e dovevo respirare con la bocca. Era secca e sentivo il bisogno di bere. Mi stupii quando trovai sopra al comodino un bicchiere coperto da un fazzoletto. Dovevo aver respirato per tutto il tempo con la bocca aperta, perché la mia gola era un deserto che andava a fuoco. Bevvi senza pensarci due volte, e ben presto il bruciore lasciò spazio a un immenso sollievo.

Il naso faceva ancora male, purtroppo.

Il suo ritmico pulsare sembrava dire: "Così impari a tirare testate alle persone!", e chissà perché aveva la voce di Athena.

In quel momento sentii un rumore provenire dal balconcino, come se qualcuno stesse soffiando fuori il fumo di una sigaretta.

Mi immobilizzai, e dopo mi sollevai appena per sbirciare attraverso le tende. Scorsi una sagoma in controluce, e solo quando un soffio di vento spostò la tenda riuscii a vedere con chiarezza la schiena di Jan.

Era appoggiato alla ringhiera in marmo, guardava il cielo. La sigaretta, quasi dimenticata, era ancora stretta fra pollice e indice mentre il vento la finiva, soffio dopo soffio.

«Sei sveglia?» chiese. La sua voce era profonda e controllata come sempre. Un attimo dopo lo vidi rientrare nella stanza, le dita impegnate a sbottonare il cappotto con movimenti lenti, ma decisi.

Come diavolo faceva a sapere sempre tutto?

Sostenni il suo sguardo, senza nascondere la rabbia che accendeva il mio.

Lui fece altrettanto, quasi volesse dimostrarmi che non temeva la mia ira. Come se mi avesse letto nel pensiero, aggiunse: «Prima russavi.»

Ah.

Trovavo irritante la sua espressione sempre glaciale, composta, neanche fosse stato scolpito nel marmo. Persino le pieghe dei suoi abiti riflettevano l'educazione che doveva essergli stata impartita fin da bambino.

Accese la piccola lampada sul comodino e si sedette sul bordo del letto, fissandomi.

Sollevai le ginocchia fino al petto e le strinsi forte, appiattendomi il più possibile contro la testiera. Non volevo sfiorarlo neanche per sbaglio, avevo i brividi se ripensavo all'intimità che gli avevo permesso di avere con me. Quelle stesse mani che adesso accarezzavano la coperta di seta, quelle che avevano guidato il mio volto in un dolce bacio, erano le stesse che avevano ferito Marvin.

Avrei voluto spezzarle.

Dopo alcuni imbarazzanti secondi di silenzio, parlò. «Come va il naso?»

Sollevai entrambe le sopracciglia, stupita da quella domanda.

«Non guardarmi così, hai fatto tutto tu.» Si difese. Sembrava quasi divertito. «Mi dispiace per Marvin, ma non avevo altra scelta.»

Rimasi fedele al mio silenzio, ripromettendomi che per farmi aprire bocca avrebbe dovuto strapparmi la lingua. Ero spaventata e disorientata, sentivo ancora il retrogusto metallico del sangue dentro la bocca e continuavo a pensare al volto ferito di Marvin, e davvero Jan Horák pensava di fare conversazione? Voltai la testa.

BarlowWhere stories live. Discover now