Sono un soldato

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Una volta fuori, raggiunsi la macchina di Cornelia e decisi di sedermi accanto a Henry, che stava appeso ai due sedili anteriori con la testa protesa in avanti per parlare con Cornelia.

Mi guardò, anzi, mi guardarono e non dissero una parola, né io la dissi a loro. Il silenzio dentro la macchina era quasi surreale, come se qualcuno l'avesse insonorizzata e dall'esterno non provenisse neanche un rumore. Persino i nostri respiri erano troppo bassi per poter essere uditi, o forse tutti e tre li stavamo trattenendo, preda dell'ansia.

«Conosco quella faccia.» Henry si appoggiò allo schienale. «Non mi dirai niente, vero?»

Dovevo avere la stessa espressione che da bambina avevo adottato tutte le volte che avevo beccato Marvin a fare qualcosa di cattivo e lui mi aveva intimato di non dire nulla. «Devo chiamare Jan» dissi atona, mentre cercavo lo sguardo di Cornelia dallo specchietto retrovisore. «Posso usare il tuo telefono o ti metto nei guai?»

Lei mi sorrise, ed ebbe il potere di allentare il nodo che avevo allo stomaco. Come Logan, Cornelia era quel tipo di persona che riusciva ad alleggerire qualsiasi situazione, e più stavo insieme a entrambi più capivo quanto fossi stata sciocca a privarmi della loro compagnia per tutto quel tempo. Con loro accanto avrei ridimensionato i miei problemi già da parecchi anni, e invece... «Mettersi nei guai per una buona causa è tanto un dovere quanto un piacere.» Allungò verso di me il cellulare con il numero di Jan già pronto in rubrica. L'aveva salvato come "Cugino buono", e questo mi strappò un sorriso.

Senza perdere tempo premetti il pulsante di chiamata mentre Henry, seduto al mio fianco, si passava le mani fra i capelli e borbottava qualcosa come: «Ma cosa diavolo sta combinando...»

Ottima domanda.

Avevo in mano le carte giuste per vincere, per piegare gli Horàk, liberare mio padre e farla pagare a chi aveva fatto del male alla mia famiglia. Sapevo benissimo "cosa diavolo stavo combinando": percorrevo l'unica strada che non mi avrebbe portata dritta dritta davanti alle porte dell'inferno.

Jan rispose dopo pochi squilli.

«Quindi, avevamo ragione?»

Trovavo irritante il fatto che sapesse sempre tutto, persino che fossi io quella dall'altra parte della cornetta. Avrei tanto voluto fargli il verso ‒ Quindi, avevamo ragione? Gne gne ‒ ma sapevo che sarebbe stato infantile.

Scesi dalla macchina e mi allontanai di qualche passo, mentre le mie gambe si preparavano a fare avanti e indietro dal nervosismo. Quando parlavo al telefono riuscivo a percorrere chilometri senza rendermene conto. «So dove trovare i soldi per ripagare il debito con i Castillo, ma devi garantirmi che non gli farete del male.» Il mio tono era categorico, ma odiai quel retrogusto che sapeva tanto di supplica. Dovevo sembrare ridicola mentre tentavo in tutti i modi di salvare il mio posto in paradiso. Le mie unghie da diavolo stringevano con forza quella poltrona che mi spettava di diritto, mentre gli Horàk tentavano di trascinarmi all'inferno con loro.

«Stai scherzando?»

«No.»

Lo sentii sospirare, e mi domandai se per la pazienza o l'impazienza. Se non fosse stato innamorato di me sarebbe stato così docile? O mi avrebbe fatta legare dentro uno sgabuzzino? Gli Horàk non si erano costruiti la loro terribile fama lasciando gli ostaggi liberi di scorrazzare in giro per la città, lo sapevo bene. La gente li odiava e piangeva gli amici e i parenti che avevano avuto il coraggio di mettersi contro di loro... e per questo erano scomparsi.

Ero terrorizzata all'idea che una cosa simile potesse capitare alla mia famiglia, e se ci pensavo ‒ se immaginavo di svegliarmi e non trovare Henry, Marvin, Thomas o Penelope ‒ mi mancava il fiato, mi tremavano le gambe, mi si incrinava la voce. Mi appoggiai a una piccola staccionata, strinsi le mani attorno al legno e sperai che quel semplice gesto bastasse a sorreggermi.

BarlowWhere stories live. Discover now