Il Re Horàk

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Ferma davanti alla gigantesca porta a due ante che separava l'ingresso dal salone principale della villa, sentivo che un semplice alito di vento avrebbe potuto farmi scattare come un gatto colto di sorpresa.

Fredde goccioline di sudore mi accarezzavano la nuca, mentre pensavo che il peggior criminale di Mistville mi attendeva in quella stanza le cui porte si sarebbero aperte come un silenzioso invito a scendere all'inferno. Accanto a me c'era il demone principe di quel pericoloso regno, pronto a guidarmi tra le fiamme per accertarsi che non mi scottassi.

Troppo poetica?

Guardai Jan con molta paura, mentre lui fissava la porta in attesa che la aprissi. Non voleva mettermi alcuna fretta ed era lì solo per supportarmi. «Non lasciarti spaventare. Lui è molto... infido» disse piano, consapevole del mio sguardo su di sé. Lo avrebbe avvertito anche se fossi stata alle sue spalle, ben lontana dalla sua vista periferica.

Riflettei sulle sue parole. "Lui è molto infido", aveva detto, e mi strappò un lieve sorriso. Tutti gli Horàk erano molto ambigui, e la mia amicizia col ragazzo che mi era accanto era stata una sorta di preparazione atletica prima di affrontare il boss finale.

D'altronde, Jan era figlio di suo padre. Chiaramente.

«Tu non entri con me?»

Jan storse le labbra. «Non sono stato invitato.» Il suo tono lasciava trasparire un forte fastidio per essere stato escluso.

Mi chiesi che razza di rapporto legasse Jan a suo padre, perché di certo non si trattava del normale affetto tra figlio e genitore. L'occhio nero che risaltava sulla sua pelle diafana ne era la prova, ma lo era ancora di più la parte del cattivo che Jan si ostinava a recitare. Avevo scorto in lui una bontà e un'innocenza degne di un bambino e di cui lui era consapevole.

Le teneva ben nascoste, vero, e non era chiaro se lo facesse per proteggerle o per vergogna, ma forse simili doni dalle sue parti erano considerati una maledizione più che una benedizione.

«Vendicherò il tuo occhio nero» dissi giocosa. Non pensavo davvero di prendere a pugni il padre di Jan, volevo soltanto rasserenare suo figlio: il peggio era passato.

Lui sembrò capirlo all'istante e la sua leggera ruga tra le sopracciglia si distese. Sorrise.

Era arrivato il momento di appoggiare la mano sulla maniglia e affrontare quell'ultima prassi puramente formale che mi teneva separata da una vita da adolescente nella norma, fatta di ansia pre-test, pettegolezzi e amori mordi e fuggi che si consumavano con la stessa intensità di una candela.

«Arriverà un giorno in cui ti porterò in salvo da questa torre, principessa» dissi prima di aprire la porta. Era una promessa, Jan lo sapeva bene, e forse non avrebbe opposto neanche troppa resistenza. I miei desideri riflettevano quelli della piccola Jana, e Jan a lei non avrebbe mai detto di no.

Non più.

Stava già scontando le conseguenze di quel grave errore.

Varcai la soglia con poco coraggio e molta rassegnazione, decisa ad affrontare la conversazione come un prigioniero con la propria condanna. Non potevo evitarla, perciò tanto valeva togliersi il pensiero.

Quella casa dava la sensazione di camminare in paradiso, bloccati in quel luogo irreale e abbandonato persino dallo scorrere del tempo.

Lui mi aspettava appoggiato a una finestra, la camicia bianca lasciata un po' aperta su un petto pallido e marmoreo, le labbra incurvate in un'espressione annoiata, gli occhi bassi sulle lunghe dita della propria mano le cui nocche erano arrossate.

Viktor Horàk.

Non era come l'avevo sempre immaginato. Aveva i lineamenti molto marcati, diversamente da quelli morbidi di Jan. Mascella pronunciata, labbra carnose, naso affilato e perfetto. I capelli erano di quel nero privo di riflessi che tanto contraddistingueva gli Horàk, ma non lisci come mi sarei aspettata. Alcune ciocche mosse gli ricadevano davanti agli occhi dal taglio malinconico, le cui iridi color ghiaccio adesso erano rivolte a me.

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