C'erano una volta un principe e una principessa

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Il cappotto nero di Jan era l'unica macchia scura nell'immenso giardino privato della residenza Horàk.

Era già di per sé un tipo incomprensibile, ma in quel momento, quando uscii dalla portafinestra che dava sulla veranda per affacciarmi dal parapetto e cercarlo, mi sembrò più distante che mai. Non saprei dire se quella sensazione fosse causata dalla linea netta che il sole segnava tra me e lui, o dal fatto che mi dava le spalle, ma se fosse stato più vicino avrei allungato una mano per cercare di sfiorarlo.

Per accertarmi che fosse reale.

Ormai convivevo con la costante paura di veder sparire sotto i miei occhi tutti quelli che amavo, e non avevo mai fatto mistero che Jan Horàk fosse tra quelle persone.

Un legame indefinibile, inspiegabile, ma che esisteva fin dalla prima volta che ci eravamo incrociati in corridoio, a scuola.

Quasi richiamato dai miei pensieri, Jan si voltò e il suo sguardo intercettò il mio. I suoi occhi, che comunemente sembravano di un nero profondo e opaco come inchiostro assorbito da una pergamena, sotto il sole rivelavano striature grigie simili a nuvole cariche di pioggia. Sebbene da quella distanza non riuscissi a scorgerle sapevo che erano proprio lì, come il suo muto invito ad avvicinarmi.

Interruppi quel contatto con discrezione, per paura di spezzare la sua magia, poi scesi i gradini delle scale imperiali per raggiungerlo. «Mi hanno detto che tuo padre non può ancora ricevermi» spiegai, quasi volessi giustificare la mia presenza lì. Come se in circostanze normali non sarei andata da lui. Certo, come no.

Accanto a lui, notai la piccola lapide alla quale era rivolta la sua totale attenzione.

"Jana Horàk", c'era inciso sulla pietra, "Che il sole e la primavera possano sostituire il freddo del lungo inverno che ha congelato la tua vita."

Guardai con attenzione la data segnata sotto al nome. Dicembre. Era sarebbe stato il suo compleanno.

Ai piedi della lastra di pietra, posto sull'erba alta, c'era un mazzo di fiori: fresie e anemoni avvolti da dolce nebbiolina bianca.

«Quindi sei venuta a cercarmi. Ho l'aria di uno che può riceverti?» Jan si chinò a sistemare i fiori. Le sue mani accarezzavano i petali con estrema dolcezza, quasi come se la loro morbidezza fosse quella del volto di sua sorella. C'era qualcosa di romantico in quel gesto, nell'immagine di dita lunghe e bianche che sfioravano tutti quei colori. Mi sarebbe piaciuto fotografarle.

Che antipatico. Non era mia intenzione interrompere il suo saluto a Jana.

«Sei proprio un bastardo, certe volte» lo informai, ma il suo sorriso leggero mi comunicò che non era infastidito dalla mia presenza. Tutt'altro. «Mi dispiace per l'occhio. È successo perché mi hai lasciata scappare, vero?»

Marvin sfregiato, Jan con un occhio nero e Logan, beh, sapevamo tutti cos'era successo a Logan. Quanto pesava adesso la mia anima? Fino a quel momento non mi ero mai resa conto di quanto fosse stata leggera prima di quegli eventi.

Jan si tirò su e mi guardò, forse riflettendo se fosse il caso di mentire o di dire la verità. Alla fine si strinse nelle spalle e disse: «Lascia stare. E poi mi dona, no? Guarda quanto sono fico.»

Una mezza verità. Era proprio da Jan.

La sua risposta diceva: "Sì, Lessie, mi è stato fatto a causa della tua fuga, ma lo rifarei un milione di volte e non me ne importa nulla."

«Che razza di arrogante presuntuoso.» Risi di cuore, mentre mi chiedevo come facesse ad avere ragione. Solo su di lui un occhio nero poteva donare così tanto! Qualsiasi ragazza avrebbe allungato una mano per accarezzare la parte offesa, preda dell'istinto di protezione più comunemente conosciuto come sindrome della crocerossina. «Non farti vedere da Logan, o gli verrà in mente di fare la stessa cosa.»

BarlowWhere stories live. Discover now