Arrivederci

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Quando ero piccola non guardavo mai in faccia le persone.

Non ricordo il perché, ma forse ero troppo timida o troppo fantasiosa. Se qualcuno lo avesse chiesto a me avrei dato ragione a entrambe le ipotesi, perché l'immaginazione era la mia salvezza dal costante imbarazzo che provavo. Nonostante avessi tre fratelli maggiori e una sorellina più piccola, quando qualcuno al di fuori di loro tentava di avvicinarsi a me, scappavo a nascondermi e, stranamente consapevole del mio disagio, piangevo perché non sapevo come soffocarlo.

La gente passava ore a cercarmi, ma uscivo dalla mia tana segreta solo quando Thomas urlava a gran voce che aveva un regalo per me. Sì, lo stesso Thomas che mi aveva dato in ostaggio agli Horàk, da bambino mi aveva ceduto tutti i suoi giocattoli per aiutarmi a uscire da quella bolla di timidezza che in passato mi aveva inghiottita tutte le volte che qualcuno aveva poggiato il suo sguardo su di me.

Peccato che Thomas non fosse più in grado di scovarmi. Aveva tradito così tante volte la mia fiducia da spingermi a cercare un altro nascondiglio, e adesso ero più introvabile di prima.

«Perché non mi guardi, Lessie?»

Lentamente abbassai lo sguardo sulla signora seduta davanti a me, dall'altro lato del tavolino del salotto. Non volevo mi leggesse dentro, per questo non la guardavo. Ero stata io a chiedere alla nonna l'aiuto di una psicologa, e dopo quello che era successo neanche il colonnello Stronganova aveva avuto il coraggio di dirmi no.

Adesso che avevo uno strizzacervelli tutto mio, però, non potevo fare a meno di chiudermi a guscio. Rispettavo il lavoro di Marlene – Marlene Richwood, ma mi aveva chiesto di chiamarla solo Marlene – ed ero convinta che chiunque, persino chi possedeva un'esistenza apparentemente idilliaca e serena, dovesse andare da uno psicologo almeno una volta nella vita. Parlare era terapeutico, soprattutto con uno sconosciuto che aveva passato anni della sua vita a studiare per poter guidare gli altri verso la risoluzione dei problemi che toglievano il sonno.

Era la nostra seconda seduta, e sebbene fossimo sistemate l'una di fronte all'altra da una buona mezz'ora, non riuscivo ancora a ritrovare la serenità che avevo raggiunto al termine del primo incontro.

L'inizio era la parte più difficile: sorridevo come una scema e puntavo gli occhi da qualsiasi parte, tranne che sul suo volto.

«Mi scusi.» Sollevai gli angoli delle labbra, impacciata. «Cosa mi aveva chiesto?»

Mi sforzai di guardarla. Non volevo che su quel quadernino che teneva in mano appuntasse "Paziente poco collaborativa. Necessario somministrare un sedativo". O forse sì? Indubbiamente un sedativo mi avrebbe aiutata a dormire.

Marlene era una donna sulla quarantina, con i capelli ramati e due adorabili fossette ai lati delle labbra. Da giovane doveva essere stata molto carina e, anche se i primi segni dell'età le velavano il volto, possedeva un notevole fascino. Forse era per via del suo sguardo dolce, di un verde spento e malinconico. Era un pensiero buffo, ma mi ricordava quello di Marvin quando era intontito dal sonno. La cosa mi fece sorridere e Marlene sorrise di rimando.

«Ho chiesto come stai.» Accavallò le gambe e si mise più comoda sulla poltrona. Era molto sportiva, ma non priva di eleganza. Mi piaceva il suo stile. «Prima della fine della nostra ultima seduta avevi accennato ad alcuni attacchi di panico. Ti va di parlarne?»

Ah già, gli attacchi di panico. Erano una novità anche per me. Inoltre, qualsiasi argomento sarebbe stato meglio che affrontare il discorso "I miei fratelli non sono miei fratelli, ma cugini".

Meno mi concentravo su quel dettaglio, meno era possibile che impazzissi.

«Sì, beh, è successo solo due volte.» Cercai di minimizzare il problema.

BarlowWhere stories live. Discover now