30 - Angel

266 35 112
                                    

Era il giorno del funerale di Will.

La funzione si sarebbe tenuta nella chiesa madre di Oderzano: un'imponente struttura in stile romanico a tre navate e rosone sulla facciata principale. L'interno era gremito, così come la piazza antistante l'edificio. Ai piedi dell'altare, la bara bianca e una grande foto di Will circondata da fiori. In prima fila, i familiari stretti di Will da una parte, Sara, Jem e genitori dall'altra. C'erano tutti: il professor Romano, Selene, Luca Martini, Paolo e Francesca, il signor Colombo, i compagni di scuola, librai, amici, ammiratori, conoscenti. Tanti, tantissimi giovani. A presiedere il rito funebre, padre Agostino, il quale aveva dato la sua immediata disponibilità non appena gli era giunta notizia della tragedia.

Sara, sorretta dalla madre, era salita sull'ambone per tenere il suo discorso d'addio. Aveva voluto indossare il vestitino a fiori che aveva messo quel pomeriggio al parco di quasi un anno prima.

«Mi dicevi che prima o poi mi avresti fatto un ritratto con questo vestito, ricordi? Era il tuo preferito» confessò Sara quasi in un sussurro rivolgendo un sorriso triste in direzione della bara. Poi si fece di colpo seria. «Non so perché sia finita così, né se era quello che volevi. E, anche se lo sapessi, non servirebbe a riportarti indietro. Quello che so è che da allora sento solo un'enorme voragine dentro, come se mi avessero strappato il cuore dal petto. Se una consolazione a tutto questo dolore esiste, è che ora sei di sicuro in un posto migliore. Perché, Will, t-tu... eri la persona migliore del mondo... questo mondo crudele non ti meritava. Riposa in pace, anima bella. Non ti dimenticheremo m...» Sara s'interruppe, travolta da singhiozzi incontenibili, affiancata subito dalla madre che la riaccompagnò al suo posto avvolgendola con un abbraccio confortante.

Era il turno di Jem. Con indicibile sforzo si mise in piedi, impeccabile nel suo completo nero, e salì a sua volta sull'ambone. Ogni passo pesava una tonnellata, ogni respiro toglieva ossigeno. Jem si schiarì la voce e alzò il capo in direzione della nutrita folla di presenti.

«Potrà sembrarvi strano, ma non sono riuscito a preparare un discorso d'addio» esordì, deglutendo nonostante avesse la gola secca. «Ho provato a scrivere una poesia ma neanche quello mi è riuscito. Non riesco a dire quello che provo. Così ho pensato di affidarmi alle parole di un maestro. Vorrei leggervi una poesia di Eugenio Montale, una poesia che esprime perfettamente come mi sento.» Fece una pausa e tirò un profondo sospiro. «Lui l'aveva dedicata alla moglie ma, vedete, la cosa bella dei capolavori è che si adattano ai tempi e ai contesti più disparati. Non sono mai fuori luogo, non smettono mai di stupirti. Lo stesso vale per Will: per me lui era un modello, un'opera d'arte, un classico. E i classici non muoiono mai.»

Detto questo, spiegò il foglietto che aveva in mano; in realtà, se l'era portato dietro solo per tenere le mani occupate. Iniziò a recitare con il cuore in gola la poesia di Montale, lo sguardo fisso sulla tomba bianca, ignorando il ritaglio di carta davanti a sé.


Ho sceso, dandoti il braccio, almeno un milione di scale

E ora che non ci sei è il vuoto ad ogni gradino.

Anche così è stato breve il nostro lungo viaggio.

Il mio dura tuttora, né più mi occorrono

Le coincidenze, le prenotazioni,

le trappole, gli scorni di chi crede

che la realtà sia quella che si vede.


Ho sceso milioni di scale dandoti il braccio

The DreamersWhere stories live. Discover now