7.

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Ringraziavo profondamente Satana per avermi fatto venire l'idea di indossare dei semplici stivaletti senza tacco, in previsione della giornata che ci aspettava, o a quest'ora probabilmente sarei finita con i piedi nudi sul pavimento roccioso di quella dannata strada che ci stava portando al monte Erice, dove era presente il Castello di Venere, ormai in macerie.

Prima di essere nominato così era il tempio della Venere Ericina, dove abitava Astarte e dove il popolo abitante nella Sicilia antica veniva a venerare la loro amata divinità. Poi tutto era caduto in rovina e Astarte raramente tornava qui, con il cuore pesante e distrutto nel vedere ciò che rimaneva del suo vecchio impero, motivo per cui rimaneva ad una quota più alta, all'Olimpo, e raramente incontrava il gemello Astaroth, confinato all'inferno. Erano di due mondi totalmente diversi, pur essendo gemelli, perché lei aveva preso dal padre, una divinità di cui il nome era rimasto sconosciuto, e lui dal padre, un Dio infernale anch'esso mai nominato. Solo Azazel, mio padre e Satana sapevano chi fosse, probabilmente.

Neanche io sapevo chi fosse mio nonno, anche se non era comunque di mio interesse, perché quel tipo di parentela, come già detto a Ximena, per noi creature infernali non esisteva. L'unica parentela importante erano i genitori e i fratelli, ma solo per il potere e la discendenza, solo per incutere più o meno paura. Per altro, a nessuno importava di nessuno.

«Sei silenziosa». Dantalian aveva il fiato corto, seppur non chissà quanto, a causa della scalinata che stavamo percorrendo. «Cos'è che ti turba, flechazo?».

Sbuffai, rendendomi il mio passo più deciso e superandolo. «Non sono fatti tuoi».

«Okay, come non detto». Il tono canzonatorio mi diede ancora più fastidio se possibile.

Tornai ad ignorare la sua presenza, cercando di dimenticare il motivo per cui dovevo sempre averlo a fianco come una spina di un cactus, il motivo per cui mi trovavo in una città di uno stato in cui non ero mai stata prima e che avrei dovuto godermi, invece che ritrovarmi a incontrare una divinità mai vista prima in un castello in rovina da anni, o il motivo per cui ero sposata pur non avendo mai amato, per colpa di un insulso incarico a cui non potevo sottrarmi se non con la morte. Per quello, dentro di me, c'era la piccola speranza che non finisse mai, perché se fosse finito, sarebbe finita anche per me.

Arrivati finalmente all'interno del castello, dove a malapena si trovavano i muri rocciosi, simili a delle grotte, e il verde della natura che si era ripresa ciò che gli spettava, Dantalian mi agguantò il polso e si fermò. «Sta arrivando, lo sento».

Tirai via il polso dalla sua presa, rimanendo ferma nell'unico pezzo di terra più stabile e vuoto rispetto agli altri, vicino ad uno dei muri mezzi crollati. «Che significa lo senti?».

Alzò gli occhi al cielo. «Sento lo stesso brivido alla nuca che sento quando tu sei nei paraggi, un caldo e lievi respiro quasi, perché siamo-». Mi osservò. «Perché sono legato a mia madre, come lo sono con te».

Non feci in tempo a rispondere che un piccolo lampo di luce mi costrinse a chiudere gli occhi, per poi sbattere ripetutamente le palpebre e ritornare a vedere ciò che avevo attorno. Era rimasto tutto uguale, fatta eccezione per la bellissima donna di fronte a noi. I capelli scuri, ma non tanto quanto i miei, le si posavano sulle spalle e sul seno, finendo sulla vita in morbide ciocche arricciate, gli occhi rotondi e di un verde simile al mio, le ciglia folte e scure incurvate verso il basso, il naso piccolo e a punta e delle labbra asimmetriche, con il labbro inferiore molto più carnoso di quello superiore, con un bellissimo e definito arco di cupido.

Tutto ciò le conferiva un aria da bambina, una bellezza innocente, proprio ciò che mi aspettavo da una divinità. Purezza. Indossava un abito lungo, pieno di piume bianche, e quasi mi venne in mente l'idea di chiederle se fossero vere, ma la scartai.

FatumWhere stories live. Discover now