29.

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Il Megiddo era l'ultimo dei viaggi che avrei voluto fare, probabilmente non rientrava neanche nei miei pensieri.

Esso era il luogo dove, secondo gli scritti, si sarebbe svolto l'Armageddon, il cui nome deriva probabilmente dal nome del posto in ebraico antico: Har Məgiddô, "monte di Magiddo".

La battaglia tra il bene e il male era molto vicina, quasi sotto ai nostri nasi, tra le forze condotte da Cristo, in teoria noi, e quelle condotte da Satana, Baal e la sua squadra, in cui purtroppo rientrava anche il demoniaccio di cui mi ero fidata ciecamente.

In realtà Satana c'entrava molto poco, si teneva fuori dai conflitti personali dei suoi servitori.

Ma sicuramente non sarebbe stato felice di sapere che uno dei suoi figli mirava a distruggere la triade, quella che era diventata la sua famiglia. Ad ogni modo, ormai era abitudinario per noi affrontare venticinque ore di volo come se fossero il nulla totale e volare da un capo del mondo all'altro come se fosse una passeggiata.

Saremmo atterrati direttamente all'aeroporto di Megiddo, così da arrivare prima in un hotel abbastanza accogliente e moderno, poco distante dalle rovine che erano rimaste delle ventisei città antiche presenti nel luogo della battaglia.

L'ansia era alle stelle e ognuno di noi era teso come una corda di violino.

«Sai da cosa capisco che sei nervosa più di tutti gli altri?». Dantalian, seduto di fronte a me perché ora viaggiavamo con il jet privato, mi osservò critico.

Sospirai annoiata, ma dentro di me bruciavo.

«Sentiamo».

«Ti sei messa solamente dei jeans, neanche neri, e una felpa bianca». Sorrise. «Dov'è finita Arya, la ragazza sempre vestita di pelle nera e vestiti aderenti?».

L'hai uccisa tu, avrei voluto dire, ma dovevo trattenermi ancora un po'.

«È a riposo, si sta rifacendo le energie per la battaglia. Dovresti farlo anche tu sai?».

Mi sporsi in avanti. «E chiudere quella cazzo di bocca che ti ritrovi».

Rut, distante da noi, fischiò.

«Nervosetta». Rise. «Dantalian, amico, lasciala stare o ti finisce male».

«Ascolta il tuo amico». Sputai acida e tornai seduta, a braccia conserte e con lo sguardo sulla terra che potrebbe essere l'ultima che i nostri piedi possano percorrere.

Nessuno sapeva se saremmo tornati a casa.

Quella mattina, poco prima di partire, ognuno di noi aveva fatto le proprie cose come se fossero le ultime: avevo lasciato il letto sfatto per poterlo risistemare se fossi tornata, non avevo tolto i vestiti dall'armadio, avevo fatto colazione in cortile, con la mia solita tazza di jack e il freddo pungente sulla pelle, avevo sfiorato mille volte i fiori sulle siepi.

Nike era rimasta insieme ad un amico di Erazm, che conoscevo anche io, a Tijuana e sapevo che l'avrebbe trattata bene finché non fossi tornata. Eppure le avevo riempito la testolina morbida di baci, l'avevo stretta dolcemente al mio petto e mi era servita la forza più potente che avessi potuto ricavare dal mio corpo per non girarmi verso di lei quando l'avevo sentita piagnucolare, mentre uscivo dalla porta di quella casa e sapevo di non avere la certezza che ci sarei potuta rientrare.

Quando il jet atterrò mi alzai di scatto, sentendomi la gola chiusa. Scesi gli scalini di fretta e furia, con la mente piena di troppe cose, troppe parole che non potevo dire e che stavano formando una lunga e spessa corda che avrebbe potuto impiccarmi.

FatumWhere stories live. Discover now