30.

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«Ehilà, forestiero». Mormorai, appoggiandomi al balcone di vetro che affacciava sulla città. Da qui non era difficile vedere il Megiddo.

Un sorriso poco felice gli curvò le labbra. «Ehilà, metà demone».

Ridacchiai del suo insulto e lo spinsi con l'anca. Mi voltai per vedere i suoi occhi blu cobalto, adesso così pieni di qualcosa che non gli apparteneva. «Che succede, Rutenis?».

Riportò lo sguardo sulla città, su quel poco che c'era attorno all'hotel. Le labbra gli tornarono curvate all'ingiù e le mani strinsero con forza il vetro. «Vuoi veramente saperlo?».

«Certo. Siamo amici, Rut, parlarne può aiutare. Magari scopri che stiamo vivendo le stesse emozioni».

Storse il naso, come se dirlo gli pungesse le corde vocali. «Ho paura di morire».

«Non sei l'unico». Mi morsi le labbra. «Perché lo dici come se te ne vergognassi?».

Il suo sguardo diventò vitreo, il suo corpo era lì con me, ma la sua mente era altrove. «È stupido che io abbia paura di morire, perché sono già morto una volta. Non puoi avere paura di qualcosa che ti è già accaduto, no?».

Scossi la testa. «Non è così, Rut. A volte è proprio perché l'hai già vissuto, sai quanto fa male e quanto è difficile, che hai paura di riviverlo. Forse è più stupido averne di qualcosa di cui hai sentito parlare, ma che non hai mai provato».

«Non ci avevo mai pensato». Respirò lentamente. «Ho pensato a tante cose in questi giorni, ma mai a vedere la situazione da questo punto di vista».

Spostai lo sguardo sul Megiddo, quell'insieme di rovine che avrebbe rovinato la vita di molte creature e che ne avrebbe segnate altrettante. «Che hai pensato?».

«Che più che aver paura di morire, ho paura di non vivere più». Inspirò.

«Ho paura di non rivedere mai più il sorriso di Ximena, ho paura di non fare più a botte con Med, ho paura di non giocare più con il lupacchiotto alla PlayStation e vederlo urlare di rabbia ogni volta che perde, ho paura di non bere più la cioccolata calda che mi prepara sempre Ximena, anche se non ne sento il gusto e potrei anche bere acqua, ma anche solo il fatto che la prepara lei per me ha gusto. Lei ha dato un nuovo gusto a tutto e io ho paura di tornare a non sentire niente».

Inspirò, con le spalle che gli tremavano leggermente e con la nuca bassa, in una posizione sconfitta. «Ho paura di non scherzare più con te, ho paura di non dare più fastidio a te e Ximena insieme a Dantalian, ho paura di non ballare e cantare più con voi sotto qualsiasi cielo».

Annuii. «Non sono mai sicura di niente nella mia vita, ma sono sicura che abbiamo tutti le tue stesse e identiche paure. Perché anche se siamo demoni, dei, streghe o Anubis, abbiamo una cosa che in realtà ci accomuna con gli esseri umani e ci rende umani».

«Il cuore». Mormorò sorridendo debolmente.

Giocai con le unghie, sbattendole fra di loro per creare un rumore che mi calmava. «Anche io ho molta paura. Credo derivi dal fatto che sento di avere ancora molto da fare».

Si voltò verso di me. «Cosa ti manca?». Deglutì. «Da fare nella vita, intendo».

Alzai lo sguardo al cielo, pieno di nuvole scure e grandi. Non c'era neanche uno spazio libero da esse, neanche un accenno di azzurro.

«Mi piacerebbe visitare tanti altri posti. Mi piacerebbe vedere quelle bellissime mongolfiere in Cappadocia, mi piacerebbe tornare in Sicilia, visitare il resto dell'Italia, mi piacerebbe godermi di più i tramonti e osservare ancora una volta le stelle. Mi piacerebbe giocare una volta ancora con la neve, fare colazione con mio padre, cantare John Mayer con Erazm e Med, aiutare ancora Ximena. Mi piacerebbe stare sempre a fianco di Nike, tenerla sempre tra le mie braccia e non lasciarla mai più».

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