1. UN CASINO IN CASA THOMPSON

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«Emy! Ti prego non cominciare anche tu! Cerca di capire la situazione!»

«Emy un cazzo.» Mormorai a denti stretti chiudendomi in bagno e sbattendo la porta.

Gli occhi mi bruciavano e socchiusi le palpebre rabbiosa, ma non riuscii a trattenere le lacrime.

Ok, ti capisco mamma. Pensai.

Capivo il suo dolore, il suo momento di difficoltà e capivo che mio padre era del tutto impazzito.

E li capivo entrambi.

Lui un po' meno.

Li capivo e li odiavo allo stesso tempo, perché desideravano comprensione, ma non facevano nulla per comprendere me e il mio punto di vista.

Quel rincoglionito di mio padre, poi, si era svegliato una mattina e aveva scoperto di avere i capelli grigi, venti chili di troppo e diversi anni di vita sulle spalle.

Pesano come macigni, diceva.

Così, pensando di alleviare un po' il suo fardello, aveva cominciato ad andare a letto con la sua segretaria che aveva solo una decina di anni più di me.

Uno stronzo cagato e rifinito, in pratica.

E mia madre, ovvio, l'aveva scoperto. Non ci aveva messo neanche molto perché era abituata a mettere le mani nella roba degli altri, a ficcanasare nelle cose non sue. Così come aveva sempre fatto nella mia camera. Controllava cassetti, borse, leggeva quaderni e documenti come se il permesso l'avesse ricevuto dal Padreterno in persona e, alla fine, qualcosa che le interessava lo trovava sempre. Quell'idiota di mio padre aveva creduto di essere immune alla curiosità morbosa della Signora Fletcher del cazzo e non aveva fatto attenzione agli indizi che aveva sparso ovunque. Macchie di rossetto, scontrini, bigliettini amorosi, selfie. Aveva reso tutto molto facile.

Davanti a una quantità abnorme di prove, le naturali conseguenze erano state la crisi di nervi della tradita, la roba del traditore che volava giù dalle scale condominiali e le risatine dei vicini pettegoli.

Ed io, figlia adolescente della coppia in piena crisi coniugale, avevo assistito inerme al volo d'angelo di mutande, jeans e quant'altro, assumendo l'espressione di colei che ben sapeva che le sarebbero serviti minimo trent'anni di terapia per riprendersi.

E poco conta il modo in cui mia madre era riuscita a scoprirlo, cioè per merito di questa sua pessima abitudine di mettere il naso nelle cose altrui, perché che mio padre si era comportato di merda era lampante. Nessuna giustificazione.

Avevo subito pensato di dare tutto il mio appoggio a mia madre. Quel tipico sostegno tra donne che una si aspetta di ricevere in situazioni del genere, tanto per intenderci. D'altronde ero abituata a gestire le crisi di pianto incontrollabili da quando avevo conosciuto la mia migliore amica Jenny che moriva dietro al suo compagno di tennis, un certo Bobby, da secoli or sono.

Avevo cercato, quindi, di gestire la depressione di mia madre per mesi e anche il suo desiderio di non lavarsi per altrettanti mesi. Con tutto il tanfo pestilenziale che ne era derivato. Avevo cercato di sopportare i suoi sbalzi di umore e pure quella improvvisa acconciatura di capelli rosa shocking durata settimane, davvero inguardabile.

«Però, anche la pazienza ha un limite» avevo detto esasperata.

Ora questa idea pazza di mollare tutto e volare in Alaska portandomi con te, anche no, mia cara mammina psicotica.

«Sarà una splendida avventura formativa per te, tesoro» mi aveva detto con voce allegra.

«Ah no! Questa poi, no!» avevo urlato dal bagno.

Spalancata la porta, ero schizzata fuori come una furia per affrontarla e me l'ero ritrovata davanti con il suo miglior sorriso di scena.

«In Alaska!» gridai incredula. «Un'avventura formativa me la farei volentieri a Londra, a New York, non sperduta tra i ghiacci e gli orsi mannari!»

«Amore mio, calmati.» mi aveva detto facendomi sedere sul divano. «Gli orsi mannari non esistono.»

Ero in iperventilazione.

«Lo so! Ma fammi capire come ti vengono in mente ste cazzo di idee!»

«Non dire parolacce.» mi aveva ripreso.

«Lascia perdere come parlo. Concentrati, invece, su come ragioni tu! Come puoi pensare di partire così e per andare in quei luoghi, poi! Come? E per quanto tempo, poi?»

«Ci trasferiremo lì, ovvio.»

La fissai con gli occhi e la bocca spalancati.

No, io la mamma pazza non posso gestirla. Non ce la faccio, avevo pensato disperata.

«Come trasferirsi? Io divento isterica per una vacanza da quelle parti e tu parli di viverci per sempre!»

«Ma è ovvio che prima dovremo andare lì. Vedere il posto e ambientarci...»

«Ovvio... andare... lì...» La mia iperventilazione stava peggiorando. «Queste brillanti decisioni le hai prese tutte da sola, giusto? Allora, ci vai da sola!»

«No, tesoro. Sei ancora minorenne devi venire con me. Magari al compimento dei diciotto anni potresti andartene via. Però sono sicura che già dopo il primo anno ti sarai innamorata del posto.»

«Dopo un anno, cosa?!» Mi ero alzata sconvolta. «Ma io non ci salgo proprio su un aereo del cazzo con te. Chiamo papà!»

«Tuo padre con questa nostra decisione non c'entra.» Aveva ribattuto subito l'altra rancorosa.

«Nostra decisione?! Tua decisione! Io non ci vengo, ti è chiaro? Non parto per finire in mezzo al nulla con te. Non lascio qua tutta la mia vita, i miei amici per venire in mezzo al nulla con te!»

E stavolta si alzò pure mia madre e con lei pure la voce di due toni. «Vorresti rimanere qua con tuo padre e quella donnaccia?!»

«Puttana semmai, mamma.» L'avevo corretta.

«Non si dicono le parolacce.»

«Oh Dio! Questa tua fissa del linguaggio è ridicola! E comunque, sì. Piuttosto di partire e perdere gli amici di una vita, io rimango con papà.»

«Perderai me, allora. Ma io non conto nulla, lo so.» Piagnucolava.

Eccolo il tono da drama queen con gli occhi lucidi. Ma stavolta, cazzo, non mi frega, avevo pensato combattiva.

Alaska, Amore & Orsi MannariWhere stories live. Discover now