23.2 GELOSIA

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«Perché controlli sempre il cellulare?» chiesi la decima volta che beccai Ethan intento a estrarre il telefonino dalla tasca dei jeans.

Eravamo usciti alla buon'ora per una perlustrazione in una zona del bosco dove era stato rinvenuto del bestiame orrendamente massacrato.

«Ho promesso ad Annie di passare a casa sua per conoscere sua nipote, ma sono qua a spasso con te. Perciò, mi aspetto una sua chiamata da un momento all'altro»

«Se devi andare, va'. Per carità, non voglio impedirti di avere un incontro galante»

«Wow, non tenti neppure di nasconderla»

«Cosa?»

«La gelosia, ovvio.»

Arrossii come un pomodoro maturo. Sentii che il mio volto stava andando in fiamme.

«Ma che diamine stai dicendo? Io gelosa di te?! Neanche per sogno!»

«Allora, come la chiami questa tua reazione?»

«Ti ho solo detto che se devi andare, puoi farlo»

«E avrei bisogno del tuo permesso?»

«Del mio permesso no, ma di un vaffanculo di sicuro sì» risposi di getto con gli occhi che sprigionavano lampi e saette.

«Non sai controbattere senza offendere? Non lo insegnano alle fanciulle civilizzate di città?»

Lui, al contrario di me, manteneva intatta la serafica calma che mostrava dalla sera prima.

Mi domandai, in quell'istante di tensione, come mai una mattina iniziata in modo gioioso stava prendendo quella piega odiosa. Diedi la colpa a quello stronzo che mi stava davanti e ad Annie che voleva affibbiargli la nipote. Gli voltai le spalle stizzita.

Mi ha dato della maleducata, pensai furente, mentre chiusa in un ostinato mutismo, presi a camminare avanti con un passo sempre più spedito.

«Emma, rallenta. Abbiamo esagerato entrambi, forza»

Prima provoca e poi si scandalizza se lo mando a quel paese, rimuginavo. Ormai, non lo ascoltavo più.

Presi a correre. Lo sentii che mi inseguiva, ma la furia e la vergogna per come avevo reagito mi fece accelerare e prendere sentieri sempre più impervi.

Mi ero comportata come una stupida.

Ero gelosa, sì diamine se lo ero!

Rallentai solo dopo aver compreso che lo avevo seminato. Mi guardai attorno e capii che non avevo la minima idea di dove mi trovassi.

Ok, niente panico, mi ordinai.

Feci dietrofront e cercai di riprendere il percorso che avevo appena abbandonando. Proseguendo a ritroso mi sarei dovuta ritrovare nella stessa radura in cui avevo mandato a fanculo Ethan. Feci appena qualche timido passo in quella direzione, quando sentii un fruscio alle spalle. Un brivido mi percorse la schiena, gelido come la lama di un coltello. Non era il fruscio del vento tra le foglie, ma qualcosa di più pesante, più greve.

Girai lenta e cauta, il cuore che mi batteva in gola come un tamburo impazzito. La luce del sole filtrava tra i rami degli alberi, creando macchie luminose sul tappeto di foglie marroni. In una di quelle macchie, immobile come una statua di pietra, c'era un'ombra enorme.

Era più grande di qualsiasi orso avessi mai visto, compresi quelli dei film horror, un vero colosso peloso con muscoli che si gonfiavano sotto la pelle spessa e scura. Le sue zampe anteriori erano larghe come tavoli, artigli ricurvi come lame spuntavano dalle sue dita. La testa era mostruosa, un muso grottesco con fauci spalancate che rivelavano denti aguzzi come pugnali. Gli occhi... gli occhi erano ciò che mi terrorizzavano di più. Non erano gli occhi di un animale, ma due pozzi neri e profondi, privi di qualsiasi scintilla di vita. Emanavano fame, crudeltà, un'antica malvagità che mi gelò il sangue nelle vene.

Alaska, Amore & Orsi MannariWhere stories live. Discover now