Una dittatura...

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È arrivato finalmente quel giorno. Non sto nella pelle, ho già riscritto i miei programmi per far rientrare le corse nella mia giornata. Non potrò partecipare alle campestri, ma mi basta sapere che posso tornare a correre.

Mia madre ha scelto di accompagnarmi per conoscere Mario che, con un enorme sorriso, ci accoglie nello studio. Constata che la caviglia è completamente guarita,  il che significa che posso tornare alle mie abitudini.

Mario non manca di lanciarmi una frecciatina su Manuel che, a quanto pare, gli ha chiesto di riferirmi che mi aspetta al campo, dove si sta allenando adesso. Dopo aver ringraziato e salutato Mario, io e mia madre lasciamo lo studio.

"Allora io vado... a salutare Manuel" annuncio, meritandomi uno sguardo malizioso.

"Dunque, non ti aspetto?" azzarda sarcastica.

"Non mi trattengo a lungo, ma visto che ora posso" esulto roteando su me stessa, aggiungendo una serie di salti per constatare la guarigione "torno a piedi."

"Fammi solo sapere se ci sei per cena, signorina."

"Perché non dovrei esserci?"

"Perché non ti ho vista quasi mai nell'ultima settimana" suona come un rimprovero. Ha ragione, da quando la nostra relazione è diventata ufficiale, Manuel ha proposto di studiare a casa sua e a noi si sono uniti anche Stefano e Chiara, in vista della simulazione che ci sarà la prossima settimana.

Dopo aver salutato mia madre, entro nello stadio dove gli allenamenti sono aperti quel giorno. Vedo Manuel ad allenarsi con gli altri difensori della squadra e sono contenta di vedere che il clima non sia teso tra loro.

Riconosco anche Cristian e il ragazzo ubriaco che hanno messo su una macchina per farlo tornare a casa. Ha un'aria gelida, non empatica. Eppure, sembrano andare d'accordo. Sono talmente presa dagli allenamenti, e dalla voglia di tornare ai miei, che non mi rendo conto che Manuel lascia momentaneamente gli altri per raggiungermi a bordo del campo.

"Ehi" lo saluto avvicinandomi.

"Fa' vedere?" alzo il jeans per mostrare la gamba nuda, senza ombra di fasciatura e, come fosse una ricompensa, mi dà un bacio lieve sulle labbra.

"C'è qualcosa per te nel mio armadietto. È il primo che trovi alla tua destra appena entri nello spogliatoio."

"Cos'è?"

"Se te lo dicessi non sarebbe una sorpresa" risponde correndo di spalle agli altri per poi voltarsi a metà campo e raggiungerli.

Incuriosita, imbocco le scale che portano agli spogliatoi. Gli armadietti, di nero lucido, si stagliano a destra e a sinistra. Non ricordo se sia il primo o il secondo e nel dubbio li apro entrambi, quando, anziché concentrarmi su quello che deve essere l'armadietto di Manuel per via del mazzo di fiori che vi trovo, mi lascio catturare, anzi annebbiare, da un sacchetto di plastica contenente una polverina bianca che c'è in quello accanto.

Istintivamente la prendo come per assicurarmene. Ricordo il frammento di conversazione che Manuel aveva avuto al Wild con Cristian: si fa come dico io, ci si sballa quando lo dico io.... Dunque, si tratta di questo.

La fa circolare lui e, da quanto posso dedurre, è sempre lui a decidere chi debba consumarla. Sento un senso di nausea crescere dentro di me, mi guardo intorno e mi viene da rigettare.

Lo faccio in un gabinetto e, dopo essermi resa conto, provvedo a sciacquarmi dal doccino di una cabina. È stata una reazione talmente immediata e istintiva che mi prendo del tempo per metabolizzare e riprendermi.

Richiudo le ante dell'armadietto di Cristian, prendo i fiori di Manuel ed esco. So di avere un aspetto orribile e sicuramente più emaciato, per cui decido di non farmi vedere e di scrivergli un messaggio.

Ho bisogno di camminare per digerire la cosa che ho appena visto. Non riesco a non frenare il pensiero che possa imbrigliare anche Manuel nel suo giro.  Mi affido ai passi, all'aria fresca, non più fastidiosamente gelida, che si insinua e tiene in ostaggio le ossa. Guardo i fiori di Manuel. Rose color champagne. Noto solo ora il biglietto rosa incastrato tra le foglie di ornamento. Mi fermo per leggerlo.

Un pensiero profumato per la ragazza più dolce
e delicata che io conosca. Come una rosa. E come un fiore
spero di vederti sbocciare ogni giorno di più al mio fianco. Amore.

Non ho mai ricevuto delle parole così semplici eppure forti, che arrivano dritte al cuore, come un paio di ali a portare leggerezza e... amore. Sento il telefono squillare. È lui. Mi asciugo gli occhi da cui sono sgorgate un po' di lacrime per l'emozione.

"Ma dove sei finita? Pensavo mi aspettassi."

"Devo finire di studiare..." mento. Segue un attimo di pausa.

"Tutto bene? I fiori non sono di tuo gradimento?"

"No, ma che dici" sorrido "è tutto ok... anzi, sono bellissimi e le parole..."

"Ti ho fatto commuovere..." mi schermisce.

"Esatto" reggo il gioco.

"Ci vediamo questa sera? Dobbiamo festeggiare la tua guarigione" propone. Ho voglia di vederlo, ma ho anche paura di rovinare la serata con l'irrefrenabile voglia di confidargli i miei presentimenti.

"Sono stanca. Facciamo domani, d'accordo?" aspetto una sua conferma.

"Ti chiamo dopo" dal tono di voce non mi sembra convinto. Ma me ne faccio una ragione. Stiamo insieme da poco e ogni giorno è una prima volta. Dobbiamo ancora delineare i confini entro cui muoverci, entro cui consentire all'altro di entrare, fino a quando non potremo navigare nei nostri rispettivi emisferi concentrici.

Quando rientro a casa mi sottopongono all'interrogatorio. Mia madre prende i fiori per posizionarli al centro del tavolo della sala in un cilindrico vaso di vetro con dell'acqua.

"Ma non è che vi sposate?" commenta mio fratello che, dal tono di voce, non riesco a capire se sia serio o scherzi.

"Hai finito i compiti tu" lo rimprovero.

"Mi manca la versione di greco. L'ho lasciata per ultima, così mi aiuti."

"D'accordo, andiamo."

Un amore da serie AWhere stories live. Discover now