Capitolo 25

122 17 5
                                    

Prima che Abe avesse la tentazione di venire a casa, scatenando la curiosità dei miei, mi feci coraggio e uscii, diretta verso casa sua. Ora mi sentivo pronta a parlare, anche se avevo il cuore in subbuglio.

Mentre percorrevo quel breve tratto, la treccia sbatteva a ritmo sulla mia schiena. Mi accorsi che stavo quasi correndo e rallentai il passo, sentendomi sciocca, anche se riconoscevo a me stessa che un mese di attesa giustificava appieno la mia necessità impellente di saperne di più.

Suonai il campanello, tesa come una corda di violino. Abe si affacciò in men che non si dica alla porta spalancata garage, facendomi trasalire.

"Io...ehm...scusa il disturbo." Okay, sembravo una completa imbranata. Feci un respiro e tornai al punto. "Vorrei parlarti." Dissi concisa. Lui annuì, come se si aspettasse che stavo per dire quelle parole.

"Va bene" acconsentì, volgendosi a dare uno sguardo fugace in direzione del garage.

"Non qui" aggiunsi mantenendo un tono distaccato. Mi sentii una stronza, ma la tensione non mi lasciava e iniziavo a vacillare, stavo solo provando ad andare fino in fondo, anche se non sapevo se sarei riuscita nell'impresa.

"D'accordo Becky, prendiamo il pick-up." Rispose lui, senza pensarci troppo su. Salì, quasi impassibile, prendendo il posto di guida. Io feci il giro del veicolo, poi andai a sedermi al suo fianco, come avevo fatto milioni di volte da quando aveva preso la patente.

Ingranò la retromarcia e uscimmo dal cortile, immettendoci sulla via, mentre il sole era ormai in procinto di tramontare.

Rimanemmo in un silenzio pieno di imbarazzo per tutto il tragitto, che si concluse nel parcheggio della tavola calda, quella dove andavamo di solito prima che io partissi per l'università.

Ordinammo del caffè, diretti al tavolo dell'angolo, stretto tra due panche imbottite. Sedermi su quelle vecchie panche mi confortò, portandomi alla mente tanti ricordi piacevoli, anche se ora c'era una sensazione pungente nell'aria: quel silenzio tra noi era come una specie di tortura.

A quell'ora non c'era molta gente. Un gruppetto di ragazzini schiamazzava dall'altra parte del locale, mentre a due tavoli di distanza dal nostro un signore anziano leggeva il giornale davanti alla sua tazza di caffè, scuotendo la testa fra sé e sé.

La cameriera giunse in poco tempo con il caffè. "È un pezzo che non vi vedo qua in giro... Bentornati!" ci disse cordiale, facendoci l'occhiolino.

Io sorrisi educatamente, mentre Abe rispose con un cenno della testa, avvicinandosi la tazza, evidentemente nervoso. Lei capì l'antifona e si allontanò a breve, lasciandoci soli.

Sospirai, sembrava che la lingua fosse incollata al palato, le parole non mi uscivano di bocca.

"Siamo davvero arrivati a questo punto?" chiesi, più a me stessa che a lui. "Non riesco nemmeno a parlare." Lui annuì, cupo.

"So come ti senti." Il silenzio calò nuovamente. Mi feci coraggio e riprovai.

"Partiamo da qui: dove sei stato?" gli chiesi, cercando di intavolare la discussione senza andare subito alle domande più spinose.

Lui si passò le mani sui jeans, sfregandole vigorosamente. Lo faceva sempre quando era nervoso.

"Beh...ho solo preso l'auto e ho viaggiato. Sono arrivato fino alla costa e ho proseguito dritto per parecchi chilometri. Non avevo una meta precisa, volevo solo..." si interruppe. "Ho vagato, non c'era un vero programma." Affermò, tornando sul discorso che aveva iniziato. Lo guardai stupita.

"Dove alloggiavi?" domandai curiosa, ancora incredula di fronte a quelle parole.

"Beh, a dire il vero ho dormito nel pick-up, un paio di volte in motel. Non avevo moltissimi soldi...sai..." si interruppe, imbarazzato. Sgranai gli occhi a sentire quelle parole. Continuavo a non capire il senso di quel comportamento.

"E così, sei partito senza soldi e senza meta, per...?" lasciai la frase in sospeso, sperando che mi dicesse qualcosa di più.

"Dovevo pensare, Becky." Le sue parole mi ferirono, mi venne voglia di lanciargli il caffè bollente. Evitai scenate, ma senza risparmiargli la mia rabbia.

"Dovevi pensare!? E te ne vai senza avvisare le persone che ti vogliono bene e che si preoccupano per te? Per pensare a cosa poi? Non potevi pensare chiuso a chiave nella tua stanza? Che colpa ne avevo io se tu dovevi pensare?" rimarcai l'ultima parola, come a sottolineare l'insensatezza delle sue giustificazioni. Mi accorsi di essere stata dura, ma ero così frustrata e arrabbiata, che mi sentivo la testa scoppiare. Mi attaccai alla tazza del caffè, bevendone un lungo sorso.

"Cristo, Becky. Non potevo pensare con te di fianco alla porta di casa mia. Non potevo e basta." Notai che anche lui non scherzava in quanto a frustrazione. Sentii le lacrime bagnarmi gli occhi, ma cercai di contenerle.

"E io che colpa avrei in tutto questo?" chiesi, con voce tremante.

"Scusa, non volevo aggredirti. È solo che...come te lo spiego?" mi domandò, senza aspettarsi realmente una risposta.

"Beh, provaci. Ne ho bisogno, Abe."

We were friendsWhere stories live. Discover now