Capitolo 29

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Durante la cena non avevo toccato cibo. Del resto, dovendo rispondere al terzo grado di mia madre, quel poco appetito rimasto mi era passato del tutto. Le spiegai per sommi capi, quanto bastava per tranquillizzarla, cercando di evitare i dettagli, sapendo che avrebbero portato altre domande. Indecisa fino all'ultimo momento, camminai su e giù per la cucina, cercando di capire cosa fare. Alla fine seguii il mio istinto. Presi una vaschetta di gelato dal freezer e due cucchiaini, poi uscii di fretta.

Lucas fumava una sigaretta davanti casa.

"Posso salire?" gli chiesi, cercando di mettere da parte l'ascia di guerra.

Annuì silenzioso. "È in camera sua." Aggiunse mentre varcavo la soglia.

Era da parecchio tempo che non entravo in quella casa, in cui nemmeno Abe aveva mai avuto piacere di rimanere troppo a lungo, soprattutto la sera.

Sentivo la musica a tutto volume fin dal piano terra. Salii cauta le scale, fino a raggiungere il piano superiore. La porta della sua camera era socchiusa. Non mi presi la briga di bussare, ma aprii lentamente. Lui non si accorse subito di me. Era seduto a terra, con la schiena contro il fianco del letto, le ginocchia raccolte tra le braccia e la testa appoggiata al materasso. Ad occhi chiusi si lasciava cullare dalle note della canzone. Poi, ad un certo punto, si accorse di me. Sembrava stupito, ma non disse nulla. Sapevo che non era uno dei suoi momenti migliori.

Gli porsi il gelato in segno di pace, avvicinandomi a lui un po' incerta. Fece un lieve cenno e capii che era il suo permesso. Mi misi seduta al suo fianco, come avevo fatto spesso.

Per un attimo volevo dimenticare tutti i casini, restare lì al suo fianco e godermi la sua vicinanza.

Aprì la scatola del gelato e tuffò il cucchiaino nella crema morbida, prendendone un po'.

"Mi dispiace" era strano rompere il silenzio in quelle circostanze, con la musica alta intorno a noi e l'imbarazzo che ora provavo quando eravamo insieme. Odiavo quella sensazione. Era così dannatamente triste che avrei voluto gridare e ribellarmi con tutte le mie forze e invece me ne stavo lì a guardarci, come se fossi lontana anni luce da noi. Non sapevo cosa fare, non avevo idea di quale fosse la cosa giusta.

"E così stai con lui?" mi chiese, ignorando la musica. Sorrisi per la situazione paradossale in cui mi trovavo.

"Beh, non più." Replicai, senza imprimere un'emozione in particolare al mio tono. Non sapevo nemmeno io cosa provavo in merito, ma non era tristezza, né rabbia. Semplicemente dispiacere per come si era evoluta tutta quella storia. Ma sentivo che era stata solo colpa mia e non mi seccava nemmeno più di tanto. Ormai non potevo più farci nulla, anzi, non volevo.

Mi sentivo meglio così, libera. E poi ora dovevo occuparmi di Abe e soprattutto di me stessa, di quel che sentivo e del perché mi sconvolgeva così tanto.

Guardai il volto di Abe, segnato dalla lotta con Jude. Percorsi con lo sguardo i lineamenti del suo viso. Li trovavo così perfetti. Osservai i suoi grandi occhi color nocciola, spesso velati da quella tristezza che avevo imparato bene a riconoscere, scorsi il profilo del suo naso regolare, le sue labbra carnose, così definite da sembrare disegnate. Continuai ad esaminare i suoi tratti con meticolosa attenzione, mi soffermai sul mento rotondo, decorato con quel piccolo neo nel lato sinistro, notai la sua pelle leggermente arrossata dopo la rasatura della barba, le sue orecchie piccole i cui lobi erano così soffici al tatto.

Conoscevo Abe in ogni suo aspetto, i suoi pensieri e i suoi dubbi, sapevo che ora questi ultimi erano molto simili ai miei e tremavo, in preda ad un'emozione a cui non ero in grado di dare un nome.

Adoravo quel ragazzo tormentato e forte, con i pensieri sempre in subbuglio, con quel carattere affettuoso e generoso. Avevo care le sue mani grandi e quelle quattro cicatrici sul braccio sinistro, quattro righe appena accennate in realtà, che quasi nessuno notava ma che io sapevo che c'erano. Volevo bene anche alle sue spalle larghe, che avevano tenuto il peso di tante sofferenze e che tante volte avevo abbracciato.

Quell'irriducibile bisogno di proteggermi e di essere protetto era il marchio indelebile di quello che significavamo l'uno per l'altra. Come potevamo mettere a rischio tutto questo? Perché forse era così, forse stavamo esponendo il nostro legame ad un rischio più grande. Non sapevamo più dove eravamo diretti, se ci saremmo stati davvero per sempre. Questa era la cosa che mi angosciava più di tutte, l'idea di perderlo. Come faceva a non averlo capito? O forse gli era tutto chiaro? Forse quella tristezza che vedevo nei suoi occhi era proprio data da queste considerazioni.

Allungai una mano, delicatamente, verso il suo labbro che avevo visto ferito tante, troppe volte. Lo accarezzai dolcemente con il pollice, sentendo uno strano dolore nel cuore, come se io stessa provassi ciò che provava lui.

"Ti fa male?" gli chiesi, aspettando che mi scacciasse o che reagisse in qualche modo. Lui socchiuse gli occhi, come a godersi quel lieve contatto con la mia pelle.

"Non più di tante altre cose..." mi confessò, cercando di trattenere le emozioni che sentivo lo stavano attraversando.

Il suo sguardo incontrò il mio, in un silenzio che solo la musica poteva riempire, e un attimo dopo si chinò verso di me, cercando le mie labbra.

Lasciai che le trovasse, pronte ad accogliere la sua bocca morbida e dolorante, lasciai che succhiasse da me quel conforto di cui aveva un bisogno disperato, di cui entrambi avevamo bisogno. Gli permisi di prendere con quel bacio ciò che desiderava, mentre io cercavo di prendere a mia volta le cose buone e dolci che lui rappresentava per me. Le nostre lingue si incontrarono, sfiorandosi, prima dolcemente, come se stessero facendo conoscenza, poi sempre più avidamente, con quel desiderio sfrenato, quella necessità inspiegabile che ci legava sempre più stretti.

Mi slegai dalla sua presa, accaldata, con l'adrenalina che scorreva dentro di me facendomi avvampare e tremare al tempo stesso. In quel preciso istante realizzai quello che stavamo facendo e mi sentii sprofondare nella disperazione, come se avessi violato qualcosa di profondamente sacro e intoccabile.

"No Abe, noi...non possiamo!" mi alzai barcollando e scappai via, corsi per le scale, lasciai di fretta la casa e mi rifugiai nella mia stanza, cercando di riprendere il filo dei miei pensieri, con la terribile e meravigliosa sensazione che per me non ci fosse nulla di più familiare di Abe, del suo abbraccio caldo e delle sue labbra morbide.

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