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THE CRUSH

A Roxbury si respirava un'atmosfera tranquilla.

Le strade illuminate dalla tenue luce dei lampioni erano quasi deserte, o perlomeno lo erano nel tratto che stavamo attraversando.

Nell'aria risuonavano i chiacchiericci sommessi e le risatine provenienti dall'Heritage Park - il parco che, come mi aveva detto Max, gli abitanti della zona avevano lottato tanto per far costruire.

L'unica peculiarità del quartiere erano i murales. Se non fosse stato per quelle frequenti manifestazioni d'arte, gli edifici in mattoncini, che caratterizzavano Roxbury, sarebbero risultati statici e noiosi.

«Li chiamano 'Brownstone'» mi informò Max, indicando uno dei palazzi di fianco a noi. «Per il colore marroncino dei mattoni, naturalmente. Guardali, senza i murales sarebbero morti. Un insignificante ammasso di pietre, messe una sopra l'altra, privi di alcun valore. Quei disegni, invece, trasformano i muri in una storia da raccontare. Ed è questo che amo dell'arte, fa di un oggetto inutile un'opera mozzafiato. I colori gli donano un'anima, un significato, un motivo di esistere. L'arte li fa... »

«Rivivere» terminai per lui.

Girò la testa verso di me e sorrise. «Esatto. Rivivere. Riesumare. È questo il suo scopo.»

Sentii un groppo formarsi in gola.

Rivivere.

Era esattamente quello che pensavo della scienza. Faceva rivivere le cose, permetteva ad oggetti inanimati di muoversi, di fare cose straordinarie... permetteva a noi essere umani di uscire fuori dagli schemi.

Quella strana sensazione di calore mi divorò lo stomaco. La stessa che provavo quando pensavo al MIT, quando guardavo i miei programmi preferiti su Science Channel, quando lavoravo ai miei modellini in scala e quando... quando Max mi toccava.

Come sempre, però, il calore si volatilizzò ancora prima che riuscissi a comprenderne la natura.

«Mi passi di nuovo il tuo telefono? Devo ricontrollare l'indirizzo. »

Afferrai il telefono dalla tasca e aprii le note del cellulare, poggiandolo poi sulla mano tesa di Max.

Jensen mi aveva dato l'indirizzo poco dopo il suo trasferimento dagli zii. Per più di un anno avevo pregato mia madre di lasciarmi andare a Boston per far visita a lui e Cody, ma lei trovava sempre scuse diverse per impedirmelo.

Di tanto in tanto erano loro a venire a Cambridge per salutarmi, ma erano ormai mesi che non li vedevo né sentivo.

Cody era già abbastanza occupato con suo figlio e il suo nuovo lavoro, per cui era raro che riuscisse a trovare del tempo anche per me. Jensen, invece, be'... non sapevo quale fosse esattamente il suo impiego, ma sapevo che lo teneva molto occupato.

Il fatto che i miei genitori si rifiutassero di parlare con loro rendeva il tutto molto più complicato.

Quando mia madre mi aveva annunciato che Cody sarebbe venuto a farci visita con Toby, un barlume di speranza si era fatto spazio dentro di me, ma una sola occhiata al suo sguardo glaciale mi aveva fatto cambiare idea.

La sua visita non era un offerta di pace, ma una dichiarazione di guerra.

Qualcosa era successo, ma nessuno si prendeva la briga di informarmi.

In quel momento, però, tutte le mie energie erano incentrate su Jensen.

«Okay, di qua. Non è molto distante dall'Heritage Park.»

Max mi afferrò la mano per condurmi in una stradina alla nostra destra.

Era da quando avevamo raggiunto la Orange Line che continuava a farlo, e mi stupiva quanto la cosa mi mandasse in visibilio.

Perfect DaughterWhere stories live. Discover now