8.2 Inganni

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« Amanti disperati, è meglio se ci raggiungete, stiamo per cenare

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« Amanti disperati, è meglio se ci raggiungete, stiamo per cenare. » Asper infilò la testa attraverso la porta quel tanto che bastò per vedere Veer e Vissia con i corpi adagiati l'uno contro l'altro. Parlò veloce, schiarendosi la voce, ed allontanandosi chiuse dietro di sé l'imposta, imbarazzato per esser stato costretto ad interrompere il loro momento d'intimità. Aveva già intuito che, essendo scomparsi in due, si trovavano necessariamente insieme ma non si era preparato a trovarli così vicini. Veer doveva aver perso il senno per concedersi ad una donna dopo la morte di Solana, o forse il dolore era ancora tanto acuto da negargli la realizzazione che quella ragazza non fosse sua moglie. Non seppe rispondersi, continuò a camminare spedito verso la sala allestita per la cena e con i passi, si persero anche i pensieri.
« Dobbiamo andare. » Veer prese Vissia per le spalle e la scostò dal proprio petto. Gli occhi erano rossi ma non stava piangendo, aveva smesso da quando lui aveva cominciato ad accarezzarle la schiena, delicatamente, con un tocco percettibile solo facendo attenzione agli stimoli emessi dal corpo. Si era concentrata su quel piacere, piuttosto che rimanere ad autocommiserarsi inutilmente. Mosse la testa in segno di approvazione e sorrise, prendendo gli avambracci di Veer ed abbassandoli affinchè la lasciasse andare. Non sembrava intenzionato affatto a farlo di sua volontà.
« Non ti fa male? Maitreya ieri ti ha... » si accorse troppo tardi di aver stretto la presa attorno alla ferita, ma Veer non parve accorgersene. Accennò una risata.
« Ci vuole molto di più per arrecarmi danno. » scostò la manica della camicia e le mostrò la pelle perfettamente liscia, segnata solo da un alone biancastro lungo il taglio che il sovrano gli aveva inflitto « I Draghi guariscono in fretta. Una notte è stata più che sufficiente per rimarginare ferite tanto superficiali. » si sfiorò anche la guancia, dove il giorno precedente si era aperto un sinuoso taglio sotto la punta della lama e Vissia s'accorse solo allora che, pur non avendoci fatto caso, il viso era tornato immacolato.
« Quanti altri segreti nascondi? » allargò il sorriso ed incrociò il suo sguardo, caldo come il sole in primavera, un sole che non infastidisce ma irradia ugualmente il cielo, un gioiello splendidamente prezioso. Lui la stava guardando con la stessa intensità.
« Abbastanza da sorprenderti anche quando non ne avrò più. » lo disse, ospitando nel palmo della mano una gota rosea di Vissia. Fu nuovamente prossimo alle sue labbra, ma riacquisì il senno in tempo per arrestarsi e direzionò il bacio verso lo zigomo, scrostando le lacrime che l'avevano solcato.
« Deduco sia doveroso andare, ora. »
La ragazza rimase a fissarlo mentre si allontanava, dandole le spalle e maledicendosi. Forse, nel profondo, anche lei aveva desiderato che quel gesto non si posasse solo nell'imminente vicinanza delle sue labbra.

Affisso alla parete nuda, al centro di due enormi teste di cervo, si ergeva un arazzo ricamato con cavalieri scesi in battaglia contro uomini senza volto, calpestando il terreno pregno di sangue, rosso come una rosa in primavera

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Affisso alla parete nuda, al centro di due enormi teste di cervo, si ergeva un arazzo ricamato con cavalieri scesi in battaglia contro uomini senza volto, calpestando il terreno pregno di sangue, rosso come una rosa in primavera. I fili pazientemente intrecciati davano l'impressione che si contorcessero come vermi per divincolarsi dalla presa dell'immagine e strisciare sul pavimento fino ai piedi di Vissia, dove avrebbero iniziato a salire similmente all'edera sui muri diroccati. La ragazza rimase a fissarlo con la bocca gentilmente sbarrata e la forchetta a mezz'aria: era impressionante la vivacità dei colori ed il crudo realismo con cui la battaglia fosse stata cucita. Le grida disumane dei guerrieri, il ringhio dei Fenrir e le carni lacerate dei nemici creavano un'atmosfera ferocemente abbacinante.
« Se lo guardi troppo finirà per muoversi. » Veer rise, spezzando un tozzo di pane e rivolgendo due occhiate furtive, una prima a Vissia e poi una all'orgoglio artistico della Dinastia dei Fenrir. Quell'arazzo stregava chiunque vi immergesse la vista ed erano in molti ad aver dovuto ammettere che fosse vero quanto si dicesse al riguardo. La guerra prendeva vita sotto gli occhi di chi sapesse osservare, la Refestghà, la Grande Guerra contro i Celesti, non poteva sembrare più reale di come apparisse in quel minuzioso lavoro artigianale che il capostipite Elnath in persona, così si narrava, avesse commissionato ad uno straniero abile nel maneggiare le illusioni umane.
Dhoveerdhan stesso l'aveva visto animarsi, gli uomini sferrare fendenti ed i lupi attaccare i fantocci umanizzati che i Celesti modellavano direttamente dalla terra come loro esercito. Da quella volta non aveva più osato avvicinarsi troppo all'alone di maledizione che s'attorcigliava come un serpente attorno alla stoffa, temendo di finire per toccarlo e pentirsi d'averlo fatto. Maitreya gli aveva raccontato, scherzando, che qualunque temerario avesse mai sfiorato i ricami fosse diventato esso stesso parte dell'arazzo e che il movimento fosse dunque conferito dalla disperazione di quei molti intrappolati in una lotta perenne e costretti a guardare la vita altrui proseguire, a differenza della loro. Non aveva mai compreso dove lo scherzo terminasse e la realtà cominciasse.
Vissia rimase ancora qualche istante a guardarlo e solo una risata trattenuta del sovrano la fece tornare al presente, l'eco di una melodia antica nei timpani. Asper doveva aver fatto una battuta. Non sapeva dire se fosse su di lei ma, considerando che persino Arian stesse sorridendo, l'aveva detta giusta.
« A cosa servite dannate bestie? E' finito il vino. Portatelo. » Maitreya levò in aria una brocca in oro, ben lavorata, dove ad inizio della cena il liquido borgogna straripava ma ora pareva non esserne rimasta nemmeno una goccia. Si fece avanti un servo giovanissimo, dall'aria disorientata, con in mano un'altra brocca piena. Si avvicinò al tavolo ed iniziò a versare il vino, tremante, nel calice del sovrano e sbadatamente lo versò fuori, bagnandogli la manica del farsetto. Non ebbe neppure il tempo per domandare perdono che già il re gli aveva preso la mano, bloccandola sul tavolo e solleticandogli il polso con un pugnale estratto dalla cintola.
« Dammi un buon motivo per cui non te la dovrei tagliare, incapace. » Maitreya aveva in viso un'espressione cupa, odiabilmente cattiva e non accennava a liberare il malcapitato incolume, costretto intanto a divorarsi le viscere dalla paura, in piedi, al fianco del Rekkar comodamente seduto.
« E' solo un bambino. » Veer s'intromise diplomaticamente nella questione « Non l'ha certo fatto di proposito. »
Maitreya allora parve tentennare nel suo proposito e fu sul punto di mollare la ferrea presa sul ragazzino quando notò qualcosa, qualcosa di importante. La mano di quel servo non aveva nessun segno di riconoscimento, non recava alcun marchio che indicasse la sua appartenenza alla servitù di corte. Corrugò le sopracciglia ed inarcò lo sguardo « Tu non sei un mio servitore. » fece in tempo a dire, prima di trovarsi un coltello alla gola.

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Le Cronache di Meknara - Sangue di DragoDove le storie prendono vita. Scoprilo ora