12.1 Confessioni

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I bassi stivali in pelle che calzava ai piedi, eccessivamente decorati tanto da risultare scomodi, accompagnavano il silenzio della camera con il suono regolare delle loro suole strascicate a terra

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I bassi stivali in pelle che calzava ai piedi, eccessivamente decorati tanto da risultare scomodi, accompagnavano il silenzio della camera con il suono regolare delle loro suole strascicate a terra. L'abito, di un verde chiarissimo, li copriva per intero e con lo strascico più lungo di qualunque altro avesse mai indossato, le sembrava pesante e d'impaccio. Tanto più a lei, che delle maldestre ne era la regina.
Era intenta a percorrere la lunghezza del pavimento, roteando da una parete all'altra non appena lo spazio a sua disposizione per camminare terminava. Si sentiva insolitamente nervosa, in preda ad una preoccupazione che non provava dal primo giorno del suo arrivo in quello strano luogo; il quale, lentamente, le stava rubando la memoria istante dopo istante. Quella mattina, in particolare, si era svegliata con l'orrenda consapevolezza di aver totalmente dimenticato il proprio cognome. Ci aveva pensato per ore a quale potesse essere, fintanto che l'alba non aveva lasciato il posto al chiarore della tarda mattinata, fattasi autonomamente spazio attraverso le tende malamente chiuse la sera precedente. Non era comunque riuscita a ricordarselo, nemmeno l'iniziale aveva voluto aprirsi un varco in quella sua testa svuotata. Si era dunque imposta di provare a tirare fuori dai ricordi qualcosa, qualsiasi cosa, che riguardasse la sua vita precedente: il nulla era stata la risposta a tutti i suoi sforzi. Il nero dell'oblio l'aveva avvolta, quasi le già scarse capacità mnemoniche che la caratterizzavano avessero iniziato a funzionare solo la notte del suo arrivo. E ciò che realmente la preoccupava, era il fatto che non si sentisse poi tanto dispiaciuta di non possedere ulteriormente tracce dei suoi poco più di vent'anni d'inutile esistenza. Diceva inutile perchè sapeva, pur non essendo in grado di spiegarne il motivo, di non aver combinato un accidente di niente in tutti quegli anni. Se ripensava al mondo da cui era stata strappata, una nube grigiastra le offuscava i dettagli, ma i sentimenti che nutriva nei confronti di questo restavano chiari, limpidi. Lo odiava, detestava la realtà in cui era stata costretta a sopravvivere, quell'odio lo percepiva intagliato nelle proprie membra, inciso a sangue sulla sua pelle. L'origine di tanta negatività, invece, non la sapeva individuare. Come non sapeva dire se avesse una famiglia, una casa, degli affetti da cui dover tornare. Tutto ciò che aveva vissuto, fatto e creduto non c'era più, era stato spazzato via, polvere nella tempesta. Non per questo, però, stava soffrendo. Anzi, un caldo piacere l'avvolgeva nel non sapere più niente, nell'essersi scordata chi fosse. Era un'opportunità quella che il destino le aveva offerto, un'opportunità di rinascere spiritualmente ed apprezzare il mondo in cui era stata posta. E tale opportunità, concessa proprio a lei, un nessuno fra tanti, non aveva intenzione di gettarla al vento.
In ogni caso, sebbene sembrasse che non la volesse sprecare, in quel preciso momento stava esattamente perdendo tempo, agitandosi per un nonnulla e cadendo nel panico per una sciocchezza. Veer aveva dovuto allontanarsi quella stessa mattina, le aveva rivelato che si trattava di affari politici e per questo non era il caso che lei lo seguisse, pertanto ora si sentiva sola, in balia di se stessa e di un universo di cui conosceva soltanto l'involucro esterno. Non riusciva a reagire a quella solitudine improvvisa, avrebbe voluto prendersi a schiaffi ed imporsi di agire come una donna matura quale doveva ormai essere, eppure non ne era in grado. Era più semplice rimanere al sicuro nel limbo in cui si trovava, aspettando come sempre che fosse lui ad andare a tirarcela fuori. Nonostante questo, permaneva in Vissia uno spirito di volenterosa iniziativa. Voleva fare qualcosa, doveva fare qualcosa senza nessuno al suo fianco che le stringesse la mano per rassicurarla. Ne sentiva il bisogno, la necessità di schiudersi al bacio dell'indipendenza che, ne era certa, le era stata finora negata. Perciò perchè non approfittare di quell'occasione per sentirsi finalmente adulta e libera? Non sapeva quanto tempo Veer sarebbe stato via, non glielo aveva detto, ma di una cosa poteva essere sicura: una volta tornato, difficilmente sarebbero stati divisi. Era complicato da spiegare, ma si vedevano così incredibilmente simili che stare insieme risultava del tutto naturale. Lui la conosceva e lei conosceva lui, ad entrambi stava accadendo di perdere pezzi di memoria se non interi ricordi, come fossero prolungamenti insulsi della loro personalità, ed ambedue stentavano a sentirne la mancanza. Veer poiché era tornato a casa propria e Vissia poiché sembrava averla appena trovata. Sarebbe stato innaturale un comportamento diverso da quello che stavano intrattenendo. Erano l'uno la metà perfetta dell'altro, e allora perchè la ragazza percepiva un senso di malcelato sollievo nel non averlo vicino? Che due personalità troppo simili finissero con l'inghiottirsi a vicenda? Non ne aveva idea, ma le cose stavano esattamente così.
Si affacciò nel corridoio illuminato dalla luce del giorno ancora giovane e si sentì pervasa dall'eccitazione nello scoprirlo vuoto, senza neppure un'anima ad intralciare il briciolo di coraggio che si era costretta ad avere. Mosse un paio di passi, attenta a non provocare alcun rumore, ed infine uscì per intero dalla camera in cui si era imprigionata con le proprie mani. Assaporò l'aria fredda che si incastrava alla perfezione con i muri di pietra, ed iniziò ad avanzare lungo il pavimento che si diramava dritto innanzi a lei. Fece scorrere una mano su una delle pareti e sorrise, per la prima volta conscia di dove si trovasse. Thora Koshra era un castello, austero e tutto sommato poco elegante, ad eccezione di alcune stanze più importanti delle altre, ma un castello. Di quelli che nella sua testa facevano parte di fiabe e racconti. E lei era più di una settimana che viveva al suo interno. Trattenne risoluta un gridolino di piacere, ma non potè fare nulla per fermare i suoi piedi, i quali iniziarono a muoversi di volontà propria, facendola roteare su se stessa. Era come essere in un sogno, un palpabile ed invidiabile sogno solamente suo. Chiuse gli occhi, concentrandosi sul peso del vestito che le volteggiava attorno: adesso non le pareva più tanto scomodo, il suo volume la faceva sentire simile ad una principessa importante. Importante. Ben poche volte aveva gustato quella sensazione di avere un posto, nell'esistenza del creato, riservato esclusivamente a lei.
Smise di girare non appena la testa cominciò a dolerle, ed alzò le palpebre per gustare un'altra volta della meraviglia architettonica che l'abbracciava. I muri si ergevano alti sopra la nuca e volte a crociera componevano il soffitto, inserendosi armoniosamente nello sguardo dei pochi che si soffermavano ad ammirarle. Rilasciò in parte il fiato mozzatosi in gola e si guardò indietro, convinta di aver fatto la mossa giusta. Però, quando il suo sguardo si rivolse di nuovo verso la direzione che aveva imboccato ed ivi vi scorse una figura avvicinarsi, pensò bene di ripercorrere la strada già fatta e tornare protetta nella camera da letto. Non aveva ancora accumulato sufficiente spavalderia per affrontare una qualunque presenza umana, non da sola perlomeno. Per di più l'idea che quella figura ancora lontana l'avesse vista, mentre si faceva irradiare da una felicità completamente incomprensibile se non per lei, le faceva arrossire le già rosee gote. Attese comunque un attimo prima di voltarsi, incerta, ma tanto bastò per darle il tempo di riconoscere chi si stesse appropinquando. La camminata sicura, l'incedere quasi aggressivo, la testa alta e la schiena dritta non ammettevano errori. Maitreya stava passando proprio nel momento sbagliato in quel corridoio.
Le ginocchia le si fecero improvvisamente più molli e la gioia degli istanti antecedenti si dileguò a gambe levate, come una sporca sgualdrina dopo la paga. Il sorriso le si spense sulle labbra e non ebbe più nemmeno la forza di respirare. Ogni muscolo del suo corpo si irrigidiva nelle vicinanze di Maitreya, i suoi meccanismi di sopravvivenza morivano sotto i suoi occhi e l'istinto si tramutava in un vermiciattolo futile. Praticamente ogni sua funzione vitale si arrestava fintanto che il sovrano non scompariva dal suo campo visivo. Maitreya non era un uomo come tanti, la violenza gli si adagiava sulle spalle come un mantello e negli occhi marroni riluceva sempre un barlume di pura follia. L'eleganza che sprigionava veniva annientata dalla brutalità con cui contraeva la mascella e dall'espressione perennemente crucciata. Le faceva paura, immensamente paura, forse perchè era consapevole che non gli sarebbe costato nulla aprirle la testa contro il muro, o forse perchè l'aveva già visto farlo.
Rimase immobile fintanto che non le passò davanti, senza neppure guardarla. Solo con le spalle rivolte nella sua direzione ebbe il coraggio di battere le ciglia, muta e con il fiato incastrato tra le costole, ma qualcosa fece comunque improvvisamente arrestare l'avanzare del sovrano.
« Esattamente cosa stavi facendo? » le chiese, roteando su se stesso per osservarla, mentre un incendio rosso divampava sulle sue guance. Aveva ragione Veer, era timida in una maniera imbarazzate. La vide tentare di aprir bocca per rispondergli e le parole seccarsi sul filo delle sue sottili labbra. Un tremito le scosse le dita delle piccole e fragili mani ed il terrore di non sapere cosa dire prese spazio nel suo sguardo.
« Non voglio sbranarti, credimi » le rivolse un accenno affabile e si abbassò all'altezza infinitamente ridotta di Vissia, che in quel momento sembrava essersi sensibilmente accorciata « ho già mangiato stamattina. »
Attese una reazione da parte sua, ma tutto ciò che ottenne furono una risata più simile ad un urletto strozzato ed un'occhiata vacua, del tutto paragonabile a quella dei cerbiatti che prendono atto di essere ormai prossimi a morire.
« Vieni. » la invitò infine, sperando di riuscire a smuoverla dalla posizione accovacciata in cui a poco a poco era scivolata. Per quale motivo volesse portarla con lui nel luogo in cui era diretto, però, non lo sapeva. Ma averla attorno gli dava la certezza che non si sarebbe infilata in nessun guaio e non avrebbe rischiato la vita. Aveva fatto una promessa a Dhoveerdhan ed aveva intenzione di mantenerla. Se non per lei, almeno per conservare un poco dell'onore che sperava ancora di possedere.
« Kaitos era poco dietro di me, sai? » decise di giocarsi l'ultima carta, se anche questa non avesse funzionato, gli sarebbe rimasto solo il caricarsela in spalla come un animale morto sperando che non mordesse « lui non ha ancora mangiato, oggi. » mentì spudoratamente, rivolgendole un sorrisetto eloquente, e Vissia si decise a scuotersi. La vide spalancare gli occhi più di quanto non fossero già ed aprire la bocca in una posa poco elegante, quasi non si aspettasse che lui, proprio lui, ci tenesse tanto ad averla vicina. Perse qualche momento per rassettarsi l'abito ed alla fine Maitreya sentì i suoi passi rimbombare dietro di lui. Era una vittoria non da poco, averla convinta a farsi seguire; e con la certezza che non lo potesse vedere, contorse l'espressione del suo volto in una di puro divertimento.

 Era una vittoria non da poco, averla convinta a farsi seguire; e con la certezza che non lo potesse vedere, contorse l'espressione del suo volto in una di puro divertimento

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Le Cronache di Meknara - Sangue di DragoWhere stories live. Discover now