18. The Broken Ones

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Non ho idea di cosa fare, adesso.

Quando mi sono sbattuto la porta alle spalle, per dirla tutta, ho pensato più alla teatralità del gesto che ai suoi risvolti pratici.

E questo ha fatto sì che mi ritrovassi a camminare avanti e indietro per il corridoio, incazzato come una iena, in tuta e infradito.

Non ho avuto neanche la lungimiranza di portarmi dietro le fottute sigarette, ma riaprire la porta per prenderle è fuori discussione.

Non dopo un'uscita così solenne.

Sfilo il telefono dalla tasca, digitando e poi cancellando furiosi messaggi di sfogo alla volta di Cyn, ma non ho il coraggio di inviarne nessuno.

Se la svegliassi non esiterebbe a chiamarmi, ne sono certo. Ma a cosa servirebbe?

Lei sarebbe a casa sua, e io qui, a ciabattare in giro per il maledetto dormitorio e a piagnucolare come un idiota di fronte al telefono.

Non ho bisogno di questo.

Ho bisogno di contatto, adesso, di una spalla su cui piangere.

Smettila. Tu non devi piangere, mi rimprovero immediatamente.

Non ho mai dimostrato particolare talento nel gestire le mie emozioni.

So essere un bravo amico, ascoltare davvero, e sono sempre così pieno di empatia per tutti.

Ho sempre le parole giuste e i silenzi giusti, il consiglio adatto da tirare fuori come un biglietto da visita.

Gestire le crisi altrui è la cosa in cui sono più bravo, ma nessuno mi ha mai insegnato cosa fare con le mie.

Sono nato inglese, d'altronde, e come tale cresciuto per nascondere attentamente ogni mia debolezza.

Ricordo con chiarezza di una volta in cui, da bambino, ero caduto dalla mia nuova bicicletta: mi ero scorticato il ginocchio, e nel vedere il sangue e la pelle viva ero esploso nella più normale delle reazioni.

Avevo pianto a squarciagola.

Mia madre era corsa da me all'istante, chinandosi per asciugarmi gli occhi e sussurrarmi dolci parole di consolazione, ma non era bastato.

Non dimenticherò mai lo sguardo che mio padre aveva in quel momento.

Mi aveva guardato quasi con disagio, vergogna, e poi mi aveva sollevato da terra e preso in braccio, premendomi il viso contro il suo petto come a voler attutire i miei singhiozzi.

"Basta, Paulie" mi aveva sussurrato, "Gli uomini non piangono".

Una volta a casa la mamma aveva messo un cerotto colorato sulla ferita per farla sembrare meno spaventosa, e aveva letto per me la mia storia preferita.

Ma io non piangevo più.

Non ho pianto neanche quando si è ammalata, neanche quando i suoi bei capelli sono caduti, neanche quando la terra mi ha strappato per sempre al calore del suo corpo.

Una sola lacrima, ogni volta.

Una sola lacrima è il compromesso, il mio ridicolo tentativo di rendere mio padre fiero di me.

Forse Churchill ha ragione: non faccio altro che ricercare affetto laddove non posso trovarlo, fino al punto estremo.

Cerco in chiunque l'approvazione che mio padre non ha mai saputo o voluto darmi, cerco di ritrovare il calore della famiglia che non ho più riversando ossessivamente il mio amore sugli altri.

E forse questo mi rende ridicolo.

Ma mai, fino ad ora, ho pensato che Churchill mi vedesse così, come una specie di parassita emotivo.

𝐀𝐔𝐃𝐄𝐍𝐓𝐄𝐒 𝐅𝐎𝐑𝐓𝐔𝐍𝐀 𝐈𝐔𝐕𝐀𝐓 - mclennonWhere stories live. Discover now