19. The Patched Hearts

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Churchill scatta in piedi non appena sente la porta chiudersi alle mie spalle, come una molla.

È di fronte alla sua scrivania, la piccola lampada che invade di luce giallastra il ripiano in legno e gli occhiali ben calcati sul naso.

Ha un barattolo di colla ancora tra le mani, e il mio libro giace a testa in giù dietro di lui, la copertina nuovamente incollata al suo posto.

Basta questo per cancellare all'istante la rabbia che provo nei suoi confronti.

La rabbia.

Ma non la delusione, il dolore.

"Hey" mormoro, nel tono più neutro possibile.

"Hey" risponde lui, incerto, e si affretta a posare la colla sulla scrivania. "Sei tornato"

Sta accertando l'ovvio, e questo di norma mi strapperebbe un sorriso.

Solitamente Churchill detesta che si puntualizzino cose inutili, e se fossimo in un'altra dimensione ora ne staremmo ridendo insieme.

Ma in questa, di dimensione, resto poggiato con la schiena contro la porta, le braccia incrociate, e non riesco a muovere un solo passo verso di lui.

Churchill è a sua volta immobile, semi seduto sulla scrivania, in silenzio.

È spaventoso non avere niente da dire, niente da dire alla persona a cui solitamente dici tutto, condurre quella che più che una discussione è una guerra fredda.

La necessità di riempire il silenzio è qualcosa che non ci appartiene, qualcosa che riguarda gli sconosciuti.

Forse è questo, che siamo destinati a diventare.

"Lo hai aggiustato" mi sforzo di dire, ma per qualche ragione la mia voce risulta estranea persino a me.

Lui scrolla le spalle, e probabilmente stiamo pensando la stessa, identica cosa: che conversazione ridicola.

"Già" si limita a constatare, e tenta un sorriso "Ora, se ti va, potremmo discutere del meteo. Non abbiamo mai avuto una conversazione più noiosa di questa"

Sorrido a mia volta, timidamente, e la stretta delle mie braccia incrociate sembra allentarsi un po'.

"Porta pioggia, domani" lo avviso, con leggero sarcasmo.

"Non è tanto il freddo" mi corregge lui, "È l'umidità che ti ammazza"

Mi strappa una breve risata, ma non riesco ancora a muovermi.

Rimaniamo a studiarci, come gatti che si girano attorno soffiando, in silenzio.

Finché lui non sospira, sollevandosi un po' gli occhiali, e dice: "È solo che sono fatto così".

Il suo tono è amaro, rassegnato, e so che non la intende come una giustificazione.

È più una richiesta di perdono, una semplice e secca analisi, come se volesse dirmi che ci sta provando, che sta facendo del suo meglio, che non vuole più essere se stesso.

"Di merda" rispondo semplicemente, ma non c'è cattiveria nella mia voce, solo cautela.

Lui ride, amaro.

"Di merda" concorda, e poi d'improvviso: "Mia madre, Julia, era una fata"

Non dico una parola, stavolta, nel terrore che sia quella sbagliata.

Mi limito a rimanere immobile, a tre metri da lui.

Ci separano cinque piastrelle del pavimento, ma non mi sono mai sentito così distante da Churchill come in questo momento.

𝐀𝐔𝐃𝐄𝐍𝐓𝐄𝐒 𝐅𝐎𝐑𝐓𝐔𝐍𝐀 𝐈𝐔𝐕𝐀𝐓 - mclennonDove le storie prendono vita. Scoprilo ora