CAPITOLO 9

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KEIRA

Dodici anni prima...

La tensione era solo nella mia testa e più mi guardavo intorno, più ne avevo la conferma. Tutti vivevano le proprie vite in tranquillità, con calma e gioia senza dover rendere conto al peso del giudizio severo dei propri genitori mentre io ero costantemente sotto esame. Facevo finta di averci fatto l'abitudine ma era stressante dover puntualmente soddisfare le aspettative altrui. Avevo studiato senza interruzione per giorni ma il compito in classe di chimica era comunque andato malissimo perchè sono entrata nel panico e non sono riuscita a concentrarmi a dovere. La sera prima dopo essere tornata dal concerto era tardissimo e come se non fosse bastato questo, ad attendermi c'era stata mia madre pronta a riempirmi di quelle sue prediche senza fine che già sapevo di dovermi aspettare. Aveva detto come al solito le cose di sempre, mi aveva ribadito che non ero altro che una delusione, che se avessi continuato ad agire a quel modo non avrei fatto altro che rovinarmi da sola, che ero ridicola a voler girare con quel vestitino da poco di buono e che mi aspettava una bella punizione ricca di imposizioni. Nessuna uscita neppure giornaliera, sarei dovuta andare a scuola la mattina giusto per mostrare al mondo che andava tutto bene nella famiglia Martin, mentre una volta tornata a casa avrei dovuto studiare senza interruzione e ad ogni voto più basso della media il tempo di reclusione aumentava drasticamente. Tutti mi vedevano come la principessina fortunata, io mi vedevo solo come una nullità in un mondo ricco di vacuità. Perchè il mio era un carcere pieno di niente.

Stringevo la bretella dello zaino affondandoci le unghie come se potesse servire a sfogare la frustrazione, ogni mio tentativo speso ad impegnarmi non riceveva alcuna ricompensa, ma non era poi la parte materiale ad interessarmi. A me sarebbe soltanto bastato un "brava tesoro" di mia madre o un "sapevo che ci saresti riuscita" di mio padre. Volevo solo avere qualche soddisfazione emotiva ma ero un oggetto e loro la lama che affondava nelle mie fibre per intagliare la perfezione in me, ma quel pezzo di legno che ero, era già sbeccato. Quindi ero inutile. Sentivo gli occhi bruciare dalla rabbia, chi piange è un debole, quella frase la sentivo da quando ero nata e percepire di star scoppiando mi portava sempre di più verso il limite. Non avrei dato la soddisfazione a mia madre di darmi della debole, alle sue parole di ferirmi, ai suoi gesti di abbattermi e al suo gelo di scottarmi. Che paradosso che sembrava. Eppure bruciavo di fronte al suo freddo. Ardevo di odio, collera e astio. Un'unione unica che mi avrebbe portata all'esaurimento. Ma alla fine nulla di tutto quel paradiso esteriore sarebbe sfociato in un lieto fine interiore.

Quando una lacrima mi rigò il volto la scacciai. Il nodo che mi stringeva la gola mi annodò anche il respiro, le parole e le grida che avrei desiderato strepitare anche davanti a tutti gli studenti di quel liceo mentre attraversavo quasi correndo il corridoio sentendomi soffocare. Il respiro corse dai polmoni bloccandosi in gola, i pensieri si appannarono proprio come la vista che a poco a poco divenne sempre più fosca. Gli sguardi addosso degli altri liceali parevano corde che mi si attorcigliavano alla gola fino a togliermi il fiato, la mia frustrazione nient'altro che un veleno che mi contorceva le budella e la mia mente era un continuo di consapevolezze che facevano più male della morte stessa. Non avrei retto più molto allungo una vita simile ma sarei sottostata a quella sofferenza fino a quando me lo avrebbero concesso.

Raggiunsi il mio armadietto e lo aprii inserendo la combinazione per il lucchetto di sicurezza, dentro vi erano per lo più libri, tutti decoravano il proprio armadietto come più li aggradava mentre io non avevo perso nemmeno il tempo per pensare di farlo. Ogni giorno desideravo sfuggire da quella scuola il più velocemente possibile, non ci avrei lasciato di certo una parte di me. Vi infilai alcuni quaderni che non mi sarebbero serviti per un po' liberandomi di qualche peso nello zaino. Quella era stata una giornata penosa e in qualche modo liberandomi del peso che mi pendeva dalla spalla mi rilassai per un secondo lasciando che i miei polmoni tirassero un bel respiro profondo. Anche se necessitavo di fare un tiro da ben altro, qualcosa che fosse meno vita e più morte. Ma per colpa di qualcuno di cui il sol ricordo mi causava prurito, non potevo neppure distendermi i nervi. <<Amica mia quando la finirai di nasconderti in quell'armadietto? Non vorrei fare la parte della guastafeste ma Keira Martin non passa di certo inosservata anche se nasconde la testa come uno struzzo.>> Richiusi l'armadietto con un risolo sommesso che mi increspò le labbra, se c'era qualcuno che sapeva come tirarmi su il morale quella era Stefany, non sapevo bene come ci riuscisse, ma in qualche modo captava il malumore da chilometri di distanza e correva da me appena poteva. Ossia subito. La sua ironia mi accarezzava lo stress come il venticello fresco della primavera spazzava via le foglie secche, ma quel giorno ci sarebbe voluto molto di più per rasserenare le mie angosce. Aveva un anno in più di me, e in lei avevo sempre riposto l'immagine di quella sorella maggiore di cui avrei avuto tanto bisogno. E di cui per fortuna in ogni caso potevo godere della presenza nella mia vita. <<Non è che hai per caso il telo dell'invisibilità di Harry Potter a portata di mano?>> Ironizzai voltandomi verso di lei, io ero uno straccio, lei era costantemente sprizzante di energie e senza fare alcuna eccezione, anche quella mattina era al pieno della sua allegria. Passare un'intera serata con Alexei doveva aver contribuito abbastanza oltretutto. Quei due erano eternamente inseparabili. Come facesse a sopportare un uomo più di qualche minuto io non ne avevo la più pallida idea. Ero sempre stata dell'idea che l'amore fosse una beneamata sciocchezza, forse il fatto che il mio sarebbe stato un matrimonio combinato aveva contribuito a coltivare questa mia credenza, ma una cosa era fin troppo certa: non avrei amato nessun'altro al di fuori di me stessa e una lista che comprendeva solo tre persone. Henry, Stefany e il mio adorato nonnino. Loro erano le colonne portanti di quel poco affetto che mi rimaneva. <<Tesoro non sono mica Mary Poppins, la mia borsa non è abbastanza grande per contenere una coperta e poi non è dalla Keira che conosco, voler scomparire.>> I riflettori non mi infastidivano poi così tanto, li detestavo solo quando non ero in vena di essere osservata, ma avere fotografi e paparazzi ai miei piedi mi faceva sentire così potente che alla fine adoravo stare al centro dell'attenzione. Era così soddisfacente vedere come tutti mi acclamavano, come avrebbero pagato tutto l'oro del mondo per un mio solo sorriso rivolto alla propria fotocamera. Loro erano sottomessi da me mentre io ero sottomessa da qualcosa di ancor più grande. Una vita dalla doppia faccia. Come una medaglia spaventosamente beffarda.

Painful melody Onde as histórias ganham vida. Descobre agora