CAPITOLO 20

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KEIRA


Dodici anni prima...

Se vi era una cosa che ormai ero arrivata a non riuscire più a farne a meno era ascoltare la sua voce.

Sì, avevo sentito qualche sua canzone anche prima di conoscerlo dal vivo ma più tempo passavo al suo fianco, frequentando i suoi concerti, più mi rendevo conto che ogni parola che sfiorava quelle labbra riusciva a lambire la pelle e ricoprirti di pelle d'oca.

Impugnava quel microfono e incantava la moltitudine di gente che si presentava per ascoltarlo per ore, proprio come quella sera, in quello stadio gremito di gente che cantava con lui i suoi stessi pezzi, una gioia per il cuore che mi scaldava il petto e non volevo neppure immaginare quanto si dovesse sentire fiero lui in primis.

Sul palco volava, si trasformava nella versione migliore di sè e gridava al mondo la sua voglia di vivere, il suo amore per la vita, per la musica e per la sua libertà. Quel ragazzo sapeva tenere il palco divinamente, era una calamita per gli occhi.

Quei tatuaggi brillavano lucidi di sudore sotto i riflettori, i suoi capelli morbidi ondeggiavano ad ogni mossa del capo che faceva come onde dorate che tagliavano l'aria, liberi e incontrollabili, gli incorniciavano il viso squadrato e perfettamente disegnato che brillava di felicità.

Passeggiava sulla passerella del palco che faceva da penisola in mezzo al mare di folla dei suoi fan e tutti lo acclamavano per sfiorargli anche solo la punta delle dita, attirare i suoi occhi su di loro, venerarlo come fosse stato un dio. Ma lui non si montava la testa, lui non cantava per i soldi o per dovere, lui cantava con loro come si poteva fare con un gruppo di amici, si sedeva lì, ogni tanto, sul palco per star loro più vicino e cantava illuminato dalle milioni di torce del telefoni che dalla nostra prospettive parevano stelle.

Stelle scese ad ascoltare la melodia incantevole della sua voce.

Quel ragazzo sembrava quasi un sogno, per quanto cercassi continuamente di trovargli qualche difetto era spaventosamente perfetto, un sogno di cui arrivai a pensare di aver paura. Lui mi faceva paura.

Me ne stavo lì, dietro le quinte di quel suo concerto, nascosta dietro alle strutture di quel palco con la vista su ogni cosa, su di lui, sulla sua band alle sue spalle e tutta la gente che era lì per lui. I miei occhi non potevano che guardarlo e rendersi conto che non vi era nulla di sbagliato in quel ragazzo, che forse ero io ad essere di troppo in quel quadretto.

Un po' come la negatività della coscienza nei sogni.

Un puntino nero su una tela bianca.

Ma poi arrivavo a ragionare che perchè doveva essere per forza così? Perchè dovevo essere per l'ennesima volta quella diversa in mezzo alla normalità? Per una volta capii che volevo vivere e basta, provare cosa voleva dire avere veramente sedici anni e non dovermi preoccupare di nulla se non della mia vita. Delle mie scelte adolescenziali, di lasciarmi trascinare da lui. Così non mi muovevo da lì.

Rimanevo al fianco di suo fratello che lo guardava con gli occhi ricolmi di fierezza. Non vi era gelosia o invidia tra di loro, Alexei non era invidioso del successo del fratello, anzi lo spronava continuamente a fare di meglio, organizzava i suoi tour e lo aiutava a coltivare il suo sogno giorno per giorno. Era meraviglioso vederli così affiatati, un amore fraterno molto simile a quello che provavamo io e Henry l'uno per l'altra, due anime legate da un solo cuore.

Quel ragazzone così simile a me infatti non mi mollava mai, neppure in quel momento. Mi teneva stretta a sé con un braccio intorno alle mie spalle ed io rimanevo appoggiata a lui, con la tempia contro il suo petto godendomi quella quiete, la pace, la felicità e la spensieratezza di quella serata. Iniziando a gustarmi veramente quel viaggio con loro. Ero stanca di pensare sempre a possibili complicazioni, farlo non mi faceva godere la calma che regnava sovrana in me quella sera.

Painful melody Where stories live. Discover now