Capitolo 1.

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TRE ANNI PRIMA
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«È arrivato qualcosa per te» mi informò Jennifer, quando entrai in cucina.

Ero appena tornata da una corsa, ed ero sudata e puzzolente. Stavo morendo di sete, così invece di correre a farmi la doccia come avrei fatto di solito, ero andata in cucina a prendere qualcosa di fresco da bere.

Mi piaceva correre: il rumore dei miei passi sull'asfalto, il calore dei muscoli in azione, la sensazione di libertà che mi trasmetteva. Era un modo per fuggire dalla monotonia della mia vita, per allontanarmi da casa. Correvo ogni volta che avevo bisogno di schiarirmi lei idee o, semplicemente, quando sentivo il bisogno di non pensare.

Il mio sguardo si spostò dalla donna alla busta che giaceva sopra il piano di marmo dell'isola della cucina. Mi avvicinai con cautela, come se avessi paura che potesse mordermi e la presi tra le mani. Sulla carta era stampato il sigillo della Columbia, il motto dell'università risaltava sul bianco del foglio. Era leggera, sottile. Troppo sottile.
Non è un buon segno, considerai, soppesandola tra le dita, e per poco non mi venne un infarto al pensiero che quella busta non portasse con sé buone notizie.

«Dai, aprila» mi incalzò Jennifer, da sopra una spalla.

Sapeva quanto desiderassi essere ammessa a quell'università ed era impaziente quasi quanto me. La Columbia era a New York, al capo opposto dello stato, praticamente un altro mondo per me. Uno in cui volevo vivere, però.

«Ho paura» confessai. «Se non mi hanno presa?»

Se non mi avessero presa probabilmente non sarei sopravvissuta a quella delusione, lo sapevamo entrambe. Contavo di entrarci e, sebbene avessi fatto domanda anche in altri posti, quella era la mia prima scelta. La Columbia non era solo un'università, era la mia via di fuga. Un modo per fuggire da quella casa, da quel luogo a cui non avevo mai sentito di appartenere, e di iniziare una nuova vita. Mi sarei trasferita a New York per frequentare i corsi, e non mi sarei più guardata indietro.

«Sappiamo entrambe che non è possibile, i tuoi voti sono perfetti».

Aveva ragione, ero una delle migliori del mio corso. E questo senza considerare il fatto che ero di un anno avanti rispetto ai miei coetanei.

«Forza, bambina, sto morendo di curiosità» mi spronò Jennifer, adesso mi era accanto e riuscivo a percepire il suo respiro caldo sulla pelle mentre espirava.

Se non avessi aperto subito la busta probabilmente lo avrebbe fatto lei, così l'aprii. Strappai la carta con molta cura e lentamente estrassi il foglio dalla busta, per poi dispiegarlo con entrambe le mani e reggerlo in modo che potessimo entrambe leggere quello che c'era scritto.

«Gentile signorina Alexandra Quinn Bellisario. È con immenso piacere che la informiamo che la sua richiesta di ammissione presso la nostra università è stata accettata. Abbiamo già provveduto a spedirle tutto il resto della documentazione per email. Congratulazioni.»

Gli occhi mi si velarono di lacrime: era la prima volta in vita mia che piangevo per la gioia. Ero immensamente felice, il mio sogno stava per realizzarsi.

Jennifer mi attirò a sé in un abbraccio e si congratulò con me, asciugandosi le lacrime che le rigavano il volto. Jennifer era una specie di madre per me, era stata lei a crescermi. Si era presa cura di me per diciassette lunghi anni, mentre mia madre a malapena si degnava di riconoscere la mia esistenza. Mi preparava tutti i pasti, dalla colazione alla cena, e in passato aveva presenziato anche a tutte le mie recite scolastiche. Non aveva figli, ma se li avesse avuti sarebbe stata una madre fantastica. Nulla a che vedere con la mia che per il mio sedicesimo compleanno mi aveva regalato una prescrizione medica, a quanto pare credeva che fosse ora che iniziassi a prendere la pillola. Che sottigliezza. Non che non si fosse rivelata utile, il mio ciclo era molto più stabile grazie al suo prezioso dono.

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