Capitolo 9.

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La femminista che era in me, si vergognò di sé stessa e distolse lo sguardo imbarazzata. Non la biasimai, la mia arrendevolezza era sconcertante. Avevo appena buttato alle ortiche più di cinquant'anni di femminismo. Non stavo più fuggendo da lui, ma non si poteva nemmeno dire che lo stessi combattendo. Avevo deciso che non mi sarei più piegata davanti a lui, e questo mi bastava. Sapere di essere in grado ti tenergli testa. Non ritrarmi quando lui faceva un passo avanti, spingere quando lui spingeva, seguirlo quando mi chiedeva di farlo. Smetterla di pensare, di sezionare, analizzare, calcolare, pensare, riflettere, ragionare su ogni mia singola mossa. Su ogni sua azione, sguardo, e su ogni parola che mi rivolgeva. Lasciare che fosse l'istinto a guidarmi, seguire il flusso della corrente, lasciare che la marea mi portasse via con sé. Quando male avrebbe potuto farmi? Nessuno, perché non ero più fragile. Non ero più delicata.

Le sue dita erano ancora strette intorno al mio polso, sembrava non volesse saperne di lasciare la presa, e io speravo che non lo facesse. Avevo paura che una volta interrotto quel contatto, Jared sarebbe tornato quello di sempre. Quello di cui non mi importava. Quello per il quale non provano niente, non più. Avevo bisogno di quel Jared, non di quello freddo e scostante, ma di quello che si aggrappava a me e mi guidava attraverso la folla. Quello che si girava a controllare che fossi ancora dietro di lui, mentre mi portava lontano dal nostro tavolo, dai suoi amici, dalla mia migliore amica, dal mio cappotto e dalla mia borsa. Distante da Brent e da Chanel. Fuori dal FREEDOM.

L'aria gelida della notte bastò a riscuoterci entrambi da quello stato di torpore, purtroppo. Lentamente, le dita di Jared allentarono la loro morsa e abbandonarono il mio polso. Faceva improvvisamente freddo senza il suo tocco sulla pelle, e mi rammaricai di essermi lasciata indurre a seguirlo. Già, il mio cervello si era rifatto vivo. Il desiderio di correre era più forte che mai.

«Hai freddo?», mi chiese, con voce atona, mentre mi stringevo tra le braccia per impedire al mio corpo di tremare.

Freddo? No, stavo solo per morire assiderata. Ma il gelo nell'aria non era nulla paragonato al modo in cui mi guardava. Come previsto, si era già pentito di quello che era successo. Rimasi ferma ad osservalo, in attesa che aggiunse qualcos'altro: niente, non aveva nulla da dire. Io, invece, ne avevo una miriade di cose da dire, la maggior parte erano insulti e in diverse lingue.

«Di qua», mi sollecitò, per poi voltarsi nella direzione indicata.

Sarei volentieri rimasta lì, esposta al gelido inverno new yorkese, ad aspettare un taxi, ma gli andai dietro. Morire assiderata non era un buon modo per andarsene, soprattutto se per fare dispetto a Jared. Camminammo immersi nel più totale dei silenzi, fino ad una macchina che mi sembrò di riconoscere. La osservai: una Dodge Charger del 1969, color nero metallizzato, con interni in pelle e cambio manuale. Non era possibile: aveva guidato per più di quaranta ore, solo per non abbandonare la sua dannata auto a Los Angeles? Gli uomini e le loro macchine, ridicoli. Jared mi aprì la portiera e aspettò che entrassi per richiudermela alle spalle, prima passare davanti al cofano per raggiungere il suo lato. Una volta dentro inserì la chiave nel quadro e accese i riscaldamenti al massimo, dai bocchettoni dell'aria condizionata fuoriuscì un getto d'aria calda che riscaldò l'abitacolo.

Accese lo stereo e mise in moto, un braccio teso davanti a sé che stringeva il volante in una mano, l'altra chiusa a pugno intorno la leva del cambio. Continuai ad osservarlo mentre ingranava la marcia e faceva manovra per immettersi in strada. Era affascinante guardarlo guidare, con gli occhi puntati di fronte a sé e la fronte aggrottata per la concentrazione.

«Dobbiamo parlare», dissi, quando fummo abbastanza lontani dal locale.

Era il caso di chiarire la questione, subito. Non avrei permesso a quello che era successo di ripetersi, mai più.

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