Capitolo 4.

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Il mio cervello si rifiutava di accettarlo. Non poteva essere lui. Jared era in California, alla UCLA. Non in un locale di Greenwich Village, New York City.
Non potevo restare lì. Dovevo andarmene. E dovevo farlo immediatamente, prima che qualsiasi cosa che si era appena risvegliata nel mio corpo prendesse il sopravvento. Non volevo dargli quel potere. Non potevo farlo, non di nuovo.

Al diavolo i pancakes! Non avevo quattro anni, se davvero li volevo potevo comprare una scatola di preparato e farmeli da sola.

«Devo andare via» mormorai all'orecchio di Jo, in modo che solo lei potesse sentirmi. Non mi andava di dare spettacolo davanti a Mimi e Coco. Non osavo immaginare quale sarebbe stata la reazione di Chanel dinanzi alla sua fuga, dato che dal suo punto di vista dovevo considerare un privilegio il fatto che mi avesse invitata a uscire con loro.

«Che cosa?» Jocelyn si voltò per guardarmi negli occhi. «Resta, ti prego».

Scossi la testa, non potevo restare. Non le avevo mai parlato di Jared, non avrebbe mai capito. Per la miseria, nemmeno io riuscivo a capirlo. Non era mai stato gentile con me. Mi ignorava per la maggior parte del tempo e, quando non lo faceva, si divertiva a prendersi gioco di me. Detto semplicemente, gli piaceva vedermi soffrire. Era probabile che fosse il suo passatempo preferito. Forse, teneva anche un'agenda in cui prendeva nota di tutte le volte in cui era riuscito a farmi piangere nel corso degli anni.

«Non mi sento bene» provai a giustificarmi, liberando la mano dalla sua presa.

Mi stavo comportando da guastafeste, ma iniziavo davvero a sentirmi male.

I miei occhi, dannati traditori, non volevano proprio saperne di staccarsi dalla figura che si ergeva sul palcoscenico di fronte a noi. Continuavo a ripetermi che lo stavo guardando solo per tenerlo d'occhio, per accertarmi che non si accorgesse di me e che non mi trovasse in mezzo alla folla, ma mentivo. Non riuscivo ad allontanare lo sguardo da lui, perché per me era come una calamita. Jocelyn se ne accorse: i suoi occhi seguirono la direzione dei miei e si posarono su di lui, per poi tornare su di me.

Beccata, ero fregata.

«Lo conosci?» mi domandò, facendo un passo verso di me.

Feci un cenno di diniego. Se avessi parlato la mia voce mi avrebbe sicuramente tradita. Ma non ci fu modo di trarla in inganno, aveva capito tutto.

«Restiamo solo per il concerto» mi assicurò, stringendo la presa sulla mia mano. «E dopo andiamo via.»

No. Era troppo, non potevo sopportarlo. Ma il mio corpo non si mosse. I miei piedi rimasero piantati al suolo e, sebbene il cervello stesse ordinando alle gambe di muoversi, queste disubbidirono ai suoi comandi. Ero paralizzata.

Altri fari si accesero illuminando il palco. I componenti della band erano cinque in tutto, ma Jared era l'unico che conoscevo. Il solo di cui mi importava.

Mi presi un po' di tempo per studiarlo. Possibile che fosse diventato ancora più bello dall'ultima volta in cui l'avevo visto? La vita era davvero ingiusta. Era diverso, ma anche uguale. I capelli erano più lunghi, ma il colore era esattamente come me lo ricordavo. Sembrava più alto ed era decisamente più muscoloso. Un leggero strato di barba cresceva sul mento, donandogli un aspetto un po' trasandato.

Da quando faceva parte di una band? Da quanto era a New York? E perché io non ne sapevo niente? Ma soprattutto, perché Hunter non me ne aveva parlato? L'indomani mattina mi sarei recata da lui per pretendere una spiegazione, dopo l'avrei ucciso. Avevo visto abbastanza episodi di How To Get Away with Murder da sapere come disfarmi di un corpo senza lasciare tracce.

Avevo finalmente ripreso il controllo del mio corpo, quando il gruppo prese a suonare. Nell'aria si diffuse il suono della chitarra elettrica e le mie orecchie riconobbero immediatamente l'attacco di una delle mie canzoni preferite. Si trattava di una cover di Remedy dei Seether.

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