Capitolo 18.

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Non chiusi occhio, passai le due ore successive a rigirarmi nel letto; senza trovare una posizione che mi permettesse di dormire.
Il problema non era il materasso, ma chi ci aveva dormito prima di me. Hunter non aveva fatto che tessere un'intricata rete di bugie, per tutti quei mesi. Prima suo fratello, poi la perfetta Cara; che cosa mi avrebbe nascosto ancora? Possibile che non potessi più fidarmi di lui? Mi alzai ed andai in bagno, aprii il rubinetto e mi lavai la faccia con l'acqua fredda, così da scacciare la stanchezza. Asciugai il viso con un telo di spugna e studiai la mia immagine riflessa nello specchio: dovevo fare qualcosa per quelle occhiaie; stavano prendendo il sopravvento.

Dovresti dormire, Alex! Mi ammonì la mia voce interiore, -quella razionale-, appena tornata da un lungo periodo di vacanza. Raccolsi i capelli in una coda di cavallo, che fermai con un elastico, ed uscii dal bagno.

Non tornai in camera –non aveva alcun senso, visto che i miei pensieri non ne volevano sapere di darmi pace-, mi diressi in cucina.
Spalancai lo sportello del frigo e mi sporsi al suo interno, alla ricerca di qualcosa da mangiare. Non avevo davvero appetito, si trattava di una forma di fame nervosa: quella che non dovrebbe mai essere assecondata. Grazie ai miei studi sapevo che lo stress e l'insonnia, erano due dei fattori scatenanti di un episodio di fame nervosa. E, due cose di cui abbondavo in quel momento. Presi il contenitore degli avanzi della sera precedente e richiusi il  frigo, con un colpo d'anca. Da un cassetto lì vicino, tirai fuori una forchetta e mi sedetti a terra, con le gambe incrociate sotto di me.

Sollevai il coperchio e affondai la forchetta dentro gli spaghetti, per sollevarla e portarmela alla bocca.
Cara era davvero brava in cucina; non avevo mai mangiato nulla di così buono in tutta la mia vita, il suo sugo era delizioso. Ingoiai il tutto senza masticare, per poi avventarmi di nuovo sul contenitore.

«Buoni», mugugnai, con la bocca piena, a me stessa.

Sentii il suono attutito dalle pantofole, di un paio di passi che si avvicinano e mi mobilizzai; con la forchetta sospesa a mezz'aria e gli spaghetti che mi penzolavano fuori dalla bocca.

Hunter entrò in cucina, osservò la scena -soffermandosi in particolar modo sugli spaghetti che ondeggiavano, grondanti salsa, dalla mia bocca- e scosse la testa; allibito.

«Che cosa stai facendo?», domandò, raggiungendomi.

Affondai gli incisivi nella pasta che avevo in bocca, che si spezzò e cadde dentro il contenitore. Disgustoso. Più per lui che per me, in realtà.

«Mangio», replicai, indicandogli il contenitore appoggiato sulle mie gambe. «Vuoi favorire?»

Lui prese posto di fronte a me, rivolgendomi un cenno di diniego. «Non dovresti mangiare dopo la mezzanotte, Alex.»

«Hai paura che possa trasformarmi in un Gremlin?», domandai, pulendomi la bocca sopra il dorso della mano.

Davvero molto signorile, ero un relitto umano. Aspettavo di essere investita, da un momento all'altro, dalla vergogna e dal senso di colpa per essere stata sorpresa a mangiare gli avanzi, -seduta davanti al frigorifero- nel cuore della notte. Quell'ondata di disprezzo per me stessa non arrivò, con mio grande sollievo.

«Alexandra.» Al mio nome per intero, seguiva sempre un discorso serio. Richiusi il contenitore e mi preparai psicologicamente. «Se è per la conversazione di prima, possiamo parlarne.»

I miei occhi incontrarono i suoi, velati da una patina di tristezza. Come al solito, si stava preoccupando per me. Forse era proprio per quello che non mi diceva mai niente, aveva paura che mi avrebbe distrutta. La povera, piccola e delicata Alex; che non riusciva ad accettare le novità. Che fuggiva dalle cose, mettendo chilometri di distanza tra lei ed i suoi problemi.

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