Capitolo 31.

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Verrò io lì, a New York. Tra due settimane.

Quelle furono le prime parole che risuonarono nella mia mente quel venerdì mattina. Non avevo ancora aperto gli occhi. Non avevo ancora abbandonato del tutto il sonno ed il dolce torpore dei sogni, che l'insistente vocina prese a farsi sentire. Nulla poteva fermarla, non aveva fatto altro che darmi il tormento dalla sera di quella chiamata: era implacabile.

Mi svegliava con l'eco delle ultime parole che Jen aveva pronunciato prima di salutarmi e chiudere la nostra telefonata. Subito dopo si lanciava in un rapido conto dei giorni che mancavano al suo arrivo, per poi interrogarsi sul motivo della sua visita ed ipotizzare vari e possibili scenari; anche i più improbabili.

E che cosa avevo ricavato da tutte quelle ore passate a tormentarmi? Niente, se si escludevano un bel paio di ombre scure sotto gli occhi.

Non avevo nemmeno un indizio, nulla in grado di confermare o smentire le mie ipotesi. Niente che mi guidasse verso una direzione e mi permettesse di escludere tutte le altre. Che cosa era successo? Perché aveva deciso di viaggiare fino a New York?

Perché non posso semplicemente spegnere il cervello, chiudere gli occhi e tornare a dormire? Tutte le altre persone ci riuscivano, perché io no? Perché permettevo anche alle cose più semplici di mandarmi in paranoia e privarmi del riposo?

Torna a dormire, Alex! ordinai a me stessa, strizzando gli occhi e rigirandomi nel letto.

«Hai intenzione di agitarti ancora per tanto?» volle sapere Jared, rivelandomi di essere sveglio.

«Impazzirò.» piagnucolai, ruotando il mio corpo verso di lui. «Jared?» lo chiamai, adagiando la testa contro il suo petto.

«Non impazzirai, piccoletta» mi rassicurò, circondandomi la vita con un braccio.

Era sveglio, proprio quello che speravo: avevo bisogno di lui in quel momento.

«Perché non mi ha detto il motivo della sua visita?» sbuffai, scostandomi una ciocca di capelli dal viso. «Mi conosce, sa che sono paranoica.»

Le sue dita presero a risalire lungo la mia schiena, su fino al collo e poi giù fino ai fianchi, in un movimento lento e cadenzato, una carezza che aveva lo scopo di tranquillizzarmi ed infondermi pace e serenità. Mi sarebbe piaciuto essere come lui, riuscire a prendere la vita con leggerezza e lasciare che le cose mi scivolassero addosso senza dar loro troppo peso o attribuendogli rilevanza. Sebbene fossi cambiata molto negli ultimi mesi c'erano alcuni aspetti del mio carattere che non riuscivo a modificare e comportamenti che non ero capace di reprimere, quello di farmi prendere dall'ansia per ogni piccola cosa era uno di questi.

«Chi ti dice che ci sia un motivo?» chiese lui di rimando. «Non vi vedete da mesi Alexandra, devi mancarle molto.»

Annuii, non ancora del tutto convinta dalla sua spiegazione. Sapevo di aver bisogno di essere rassicurata, ma le mie paure non erano disposte a cedere così in fretta. Non poteva essere così facile, no? No, all'adorabile vocina nella mia testa non bastavano un paio di parole gentili per mettere a tacere i dubbi che continuava ad insinuare.

«Ne sei sicuro?» insistetti, sollevando il viso dal suo petto per incontrare il suo sguardo.

«Ne sono certo.» replicò, sporgendosi verso di me per sfiorarmi il naso con il suo.

«Dovrei andare a correre.» riflettei ad alta voce, discostandomi da lui.

«Alle quattro del mattino?» si indignò lui, allontanandosi da me. «Spero che tu stia scherzando.»

«Correre mi aiuta a rilassarmi.» gli spiegai, scrollando le spalle.

«Conosco un altro metodo molto efficace, non devi nemmeno uscire da questo letto per metterlo in pratica.» ribatté, incurvando le labbra nel suo solito ghigno compiaciuto.

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