Capitolo 10.

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La Dodge non c'era, che peccato. Non l'avrei presa a calci comunque, non ero così stupida da commettere lo stesso errore due volte: ci tenevo ai miei piedi, mi servivano per correre.

Uscita dall'edificio in cui abitava Hunter, mi diressi verso casa. I ricordi della conversazione appena avvenuta si affollavano nella mia mente. Sempre che conversazione si potesse definire, ne avevo ricavato solo un gran mal di testa. Era altamente probabile che continuare a frequentare Jared, mi avrebbe portata sulla via della dipendenza dall'aspirina.

Sentivo il bisogno di mangiare cioccolata, o di andare di nuovo a correre. Una delle due, o anche entrambe: necessitavo di una bella dose di endorfine, in che modo le avrei prodotte non aveva importanza. La musica, potevo anche ascoltare della musica. Anche quella, mi ricordai, aiutava a rilasciare quei polipeptidi, comunemente chiamati ormoni della felicità. Mi mancava la felicità. Ero felice prima che New York sviluppasse un proprio centro gravitazionale, che aveva finito con l'attrarre nella sua orbita tutte le persone della mia vita che volevo tenere a distanza.

Sì, dovevo ascoltare qualcosa che mi calmasse. E fu esattamente quello che feci: presi l'Ipod, infilai le cuffie nelle orecchie e diedi il via alla playlist che ascoltavo sempre prima di un esame importante. Che nel mio caso, corrispondeva ad ogni esame. Perché, siamo seri, ne esistevano di non importanti? Il mio futuro dipendeva dai miei voti, non potevo prenderli sottogamba.

Camminai facendo ondeggiare la testa al ritmo della musica, fino a raggiungere il nostro palazzo. Salutai il portiere diurno, che tanto per cambiare stava facendo il suo lavoro, e gli riconsegnai le chiavi di riserva. Per poi salire con l'ascensore al nostro piano.

La porta dell'appartamento era aperta e quando entrai, trovai Jocelyn intenta a dimenarsi nel bel mezzo del nostro salotto con l'aspirapolvere in una mano. Ecco una novità: Jo impegnata nelle pulizie di casa, alle dieci di un sabato mattina. Di solito a quell'ora era ancora sdraiata a letto, per riprendersi dalla nottata appena terminata. Quando si accorse della mia presenza abbassò il volume della musica e spense l'aspirapolvere. Io mi tolsi le cuffie e spensi il mio Ipod.

«È arrivata una cosa per te», mi informò, con un sorriso sornione.

«Un pacco?», domandai, dirigendomi nella mia stanza.

Non era raro che mio padre mi mandasse qualche regalo, capitava spesso. Ovunque si trovasse, si ricordava sempre di inviarmi qualcosa: cibo, vestiti, accessori. A Jack, diversamente da Poppy, piaceva rendermi felice e cercava sempre un modo per farlo. Forse non lo faceva nel modo giusto, ma almeno tentava.

Dov'era in quel momento? Se non ricordavo male, nella sua ultima mail mi aveva informato di essere in procinto di partire per il Giappone. Forse era il caso che lo chiamassi per avvisarlo del nuovo matrimonio della mamma, ne avrebbe riso con me, come sempre.

«No, vedrai», il sorriso era ancora lì, leggermente inquietante. Mi metteva i brividi.

Quando entrai in camera, trovai un grosso mazzo di rose rosse ad attendermi sopra la scrivania. Il mio primo pensiero fu: fa che non siano di Dick. Conoscendo mia madre, era probabile che gli avesse fornito l'indirizzo.

Il secondo fu, perché gli uomini danno sempre per scontato che le rose siano il fiore preferito di tutte le donne? Mi piacevano, non avevano nulla contro le rose. Ma le trovavo sopravvalutate. Le si regalava troppo spesso e solo nella speranza di andare sul sicuro, di riuscire a fare colpo. Ma, non ricevevo poi così tanti fiori da potermi permettere di fare la schizzinosa, quindi andavano bene.

«Sai chi le manda?», le chiesi, tornando a guardarle come se avessero la peste.

Non volevo toccarle, non se erano di Dick. Le avrei buttate via, per fingere di non averle mai ricevute. Ero un genio del male, più o meno.

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