Capitolo 20

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Dopo il pranzo con Jack, ero tornata a lezione e per le ultime ore non avevo fatto altro se non concentrami su ogni singola parola che usciva dalla bocca del professore. Avevo smesso di analizzare la sua reazione, perché non c'era proprio nulla da cercare. Era solo sorpreso. Era comprensibile, era passata quasi una settimana e io stessa non riuscivo ancora ad accettarlo.

Finiti i corsi tornai a casa per preparare la mia valigia. La partenza per Augusta era vicina e io volevo essere preparata ad ogni evenienza. Tolsi il vestito,  lo gettai nella cesta dei panni sporchi e mi infilai i pantaloni del pigiama e una t-shirt. Dopodiché aprii l'armadio e iniziai a preparare la mia valigia.

Una volta finito, la studiai attentamente: non riuscivo a capire dove avevo sbagliato.

Avevo selezionato dal mio armadio solo il giusto necessario per una settimana di vacanza, eppure non voleva saperne di chiudersi. Era una bugia; avevo selezionato solo quello che io ritenevo il necessario per una settimana. Ma il mio metro di misura non corrispondeva a quello degli altri esseri umani. O a quello di chi aveva progettato il mio dannato trolley. Non importava quante volte avessi provato a svuotarla, per poi riempirla di nuovo: pur cambiando la disposizione degli indumenti, il risultato non cambiava.

Ci provai di nuovo, mi sedetti sopra e mentre con una mano esercitavo pressione schiacciando con tutto il mio peso, con l'altra tiravo la zip per chiudere la cerniera. Come le dieci volte precedenti, questa si fermò arrivata a metà del suo percorso. Maledetta, ti odio.

«Perché non ti chiudi?» le inveii contro, saltellando. «Chiuditi.»

Niente, non voleva collaborare.

Il cellulare vibrò contro la pelle del mio fianco, e non mi servì leggere il nome sul display per sapere chi era il mittente della chiamata. Rimpiangevo i giorni in cui a cercarmi erano solo Jen, Jocelyn e Hunter. La mia vita era molto più tranquilla prima, e non era passato nemmeno un mese. Spostai l'elastico dei pantaloni,  presi il cellulare e risposi al mio stalker.

«Hai da fare, piccoletta?» chiese, senza nemmeno salutarmi.

«Ciao anche a te, Jared.» lo rimproverai, incastrando il telefono tra l'orecchio e la spalla. Mi sedetti davanti alla valigia e sollevai la parte superiore, per ricontrollare il tutto. Forse l'impermeabile per la pioggia era eccessivo. «E sì, sono impegnata.»

«Non ti credo» affermò, risoluto, mettendo in dubbio le mie parole.

«Aspetta.»

Uscii dalla schermata della chiamata, mi alzai in piedi e aprii la fotocamera per scattare una foto alla mia valigia. Poi gliela inviai per messaggio.

«Come puoi notare, sono molto indaffarata in questo momento.» aggiunsi, tornando a sedermi sul parquet.

«Torni a casa per le vacanze?» domandò, pensieroso.  «Strano, Shawn non me l'ha detto.»

Casa, non avevo mai sentito Los Angeles come casa mia. La consideravo solo il posto dov'ero nata e cresciuta, ma nulla di più. Jen era la mia casa. Jo e Hunter erano la mia casa. Per me "casa" non faceva riferimento ad un luogo preciso, ma a delle persone.

«No, vado con Jocelyn ad Augusta.» Un attimo, che cos'ha detto su Shawn? «Che cosa volevi dire con quella cosa su Shawn? Gli chiedi di riferirti tutto quello che facciamo?»

Usava il suo migliore amico come una spia, incredibile.

«No, piccoletta, gli chiedo di riferirmi solo quello che fai tu» affermò, con sicurezza.

Come se fosse normale chiedere ad una persona di dirti tutto quello che faccio!  Purtroppo, non mi dava davvero fastidio. Il mio cervello non voleva ammetterlo; ma le farfalle che si agitavano dentro di me, non lasciavano più alcun dubbio: mi faceva piacere che dimostrasse di interessarsi alla mia vita.

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