Capitolo 33.

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C'erano giorni, come quello, in cui dovevo ancora ricordarmi di respirare. Erano piccoli istanti, brevi e fugaci. Momenti in cui il ricordo di quello che dovevo affrontare mi investiva, trascinandomi al centro di un vorticante uragano di pensieri.
C'erano giorni in cui riuscivo a posizionarmi al centro esatto di quel ciclone ed uscirne indenne.

Altri, invece, avevo a malapena la forza per alzarmi dal letto e costringermi a reagire.

Volevo essere forte per Jen e cercavo sempre di nascondere la mia debolezza sia a lei, che a chiunque altro. Jared compreso. Avevo già pianto abbastanza davanti a lui, quindi avevo deciso di conservare le mie lacrime e versarle solo nei momenti più intimi e di massimo riservo: la notte –quando dormivo da sola- e sotto la doccia. Non volevo che nessuno mi vedesse durante quegli istanti di fragilità, perché non credevo che sarebbero riusciti a comprendermi. Non ero così presuntuosa da pensare che chi mi stava accanto non era in grado di capire il mio dolore, ma ero consapevole del fatto che ogni persona reagiva ed affrontava la propria sofferenza in maniera differente e non volevo che agli occhi di chi mi guardava il mio modo di farlo risultasse sproporzionato ed eccessivo.

La sola idea di perdere Jennifer mi aveva devastata, questo non voleva dire che fossi disposta a mostrare le rovine che si era lasciata alle spalle. Preferivo fingere che il peggio fosse passato e che mi ero ripresa, per il bene comune e per il mio.

Respira, ripetei a me stessa. Allungai una mano verso la manopola dello stereo per alzare il volume della musica, che fino a poco prima si era limitata a fare da rumore di sottofondo. Chiusi gli occhi ed adagiai la testa contro lo schienale, sospirando sonoramente.

«Stai bene?» mi chiese Jared, in un tono abbastanza alto da riuscire a sovrastare la musica.

Annuii, lasciandomi sfuggire un altro sospiro. «Sì, sono solo un po' stanca.» replicai, stringendomi nelle spalle.

Ero esausta, sia fisicamente che mentalmente. Dormivo poco e quando ci riuscivo, il mio sonno era sempre agitato. Spesso, stanca di rigirarmi senza sosta nel letto mi alzavo ed andavo a correre, per poi tornare a casa e dare il via ad una lunga e frenetica giornata. Gli impegni si erano moltiplicati, le ore del giorno erano rimaste sempre le stesse ed io avevo imparato ad organizzare ogni singolo minuto in modo da riuscire a fare tutto. Era una fortuna che fossi una maniaca del controllo, o non sarei mai stata capace di pianificare alla perfezione ogni singolo istante delle mie giornate. Quello era il solo tratto della mia personalità che avevo ereditato da mia madre, con mio grande piacere.

Jared si era assunto un ruolo che si era rivelato fondamentale: quello di nutrirmi. Tornavo nel mio appartamento –ogni sera- sapendo che l'avrei trovato in piedi davanti ai fornelli intento a preparare la cena.

La sera prima ero tornata a casa tardi da una lezione e lui era già in cucina, i capelli raccolti in un codino, un grembiule legato intorno alla vita ed una spatola in mano. «Ti piacciono ancora gli hamburger, giusto?» aveva domandato, controllando la cottura della carne che sfrigolava nella padella antiaderente sistemata sopra la fiamma accesa.

«Solo se sono accompagnati da un'abbondante porzione di patatine fritte.» avevo replicato, allargando le labbra in un sorriso e lasciandomi cadere sul divano.

Ovviamente, il ragazzo perfetto aveva preparato anche un abbondante dose di patatine fritte.

Jo e Shawn si erano uniti a noi per la cena, che avevamo consumato seduti intorno al tavolo e non sul sofà, come avremmo fatto se fossimo stati soli.

Una volta finito di mangiare la mia amica ed il suo ragazzo si erano offerti di occuparsi dei piatti e di pulire la cucina, io e Jared ci eravamo recati in camera mia. Stavamo guardando un film insieme, quando mi ero addormentata tra le sue braccia. Quel giorno, al mio risveglio, l'avevo trovato ad osservarmi in silenzio. Il viso era contratto in un'espressione seria ed il modo in cui i capelli ricci gli ricadevano sugli occhi, li metteva in ombra ed impediva di leggervi dentro. Non mi aveva nemmeno lasciato il tempo di aprire bocca e dar voce ai miei pensieri, che subito mi aveva palesato la sua intenzione di accompagnarmi da Jennifer quella mattina. Non aveva ammesso repliche e discussioni. A nulla erano valse le mie proteste, provare a farlo ragionare si era rivelato inutile. Alla fine avevo acconsentito, permettendogli di portarmi in macchina fino al suo edificio.

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