Capitolo 6.

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Il cellulare appoggiato sopra la scrivania suonò, avvisandomi dell'arrivo di un messaggio.

«Sei arrabbiata con me?». Era di Hunter.

L'ennesimo messaggio in cui mi chiedeva se ce l'avevo con lui, per avermi tenuto nascosta la notizia del trasferimento di Jared, da quando avevo lasciato il suo appartamento quella domenica.

«No», digitai rapidamente sulla tastiera, per tornare a dedicarmi al libro di testo.

Stavo cercando di studiare ed essere distratta ogni due per tre, dall'arrivo di un suo messaggio, non mi aiutava a concentrarmi.

«Allora perché mi eviti?»

«Non ti sto evitando, sono solo molto occupata.»

Aveva ragione: lo stavo evitando.
Non ero arrabbiata con lui, più che altro, ero infastidita. Capivo il suo desiderio di proteggermi da me stessa, e gliene ero grata, ma mi dava comunque fastidio. E poi c'era la telefonata che aveva sostenuto con Jared, quella che avevo sentito nel suo appartamento. Non mi ero nemmeno sforzata di ignorarla. Continuavo a ripetermi che non mi interessava, che avevo cose più importanti di cui occuparmi, ma i miei pensieri finivano sempre lì.
Perché prendersela così tanto, per una persona che detestava? Non aveva alcun senso. Nessuno che riuscissi a trovare.

Impostai il cellulare su silenzioso e ripresi a studiare, non avevo tempo da perdere a rimuginare su cose inutili. Quella domenica dopo essere rientrata con il pranzo, mi ero chiusa in camera mia per ripassare e non ne ero uscita se non per andare in bagno, o per rifornirmi di cibo e acqua. Mi ero impegnata molto per entrare alla Columbia, nel corso di quei tre anni avevo lavorato duramente per passare tutti gli esami con il massimo, e non avrei permesso che i miei voti risentissero di quel cambiamento.

Avevo un obiettivo: non volevo diventare come mia madre, che non aveva lavorato un singolo giorno in tutta la sua vita, volevo fare qualcosa. Non sarei diventata una moglie trofeo, non avrei passato il mio tempo ad organizzare feste e balli al country club, o serate di raccolta fondi per la campagna di qualche politico.
Volevo essere qualcuno.

La psicologia mi era sempre piaciuta, amavo l'idea studiare la mente umana per giungere a comprendere il comportamento delle persone. Era affascinante osservarle e analizzare ogni singolo atto alla ricerca di un significato più profondo dietro alle loro azioni, cercare di comprendere i pensieri che li guidavano. Così, quando era giunto il momento di scegliere un indirizzo di studio, la mia scelta era ricaduta sulla Facoltà di Psicologia.

Si era rivelato un percorso di studi più difficile del previsto –erano molti gli esami che mi avevano dato del filo da torcere-, ma era interessante e mi dava molte soddisfazioni.

Il telefono vibrò di nuovo accanto al mio braccio, cercai di ignorarlo e di continuare a leggere un passaggio particolarmente difficile sul funzionamento dei neurotrasmettitori, ma quello non voleva saperne di smettere.
Maledissi Hunter, per poi scoprire che non era con lui che dovevo prendermela.

Chanel? Lo presi tra le mani e lo avvicinai agli occhi. No, non si trattava di un'allucinazione.
Ma che voleva? Non mi chiamava mai, ma questo era prima di Jared.

Mi alzai dalla sedia e uscii dalla mia stanza, per entrate in quella di Jocelyn.

Jo era sdraiata supina sul letto, la testa appoggiata sul fondo e i piedi sollevati contro il muro, un libro sospeso a mezz'aria davanti al suo viso. Aveva sicuramente un modo molto particolare di studiare.

«Perché Coco mi sta chiamando?», domandai, avvicinandomi per mostrarle il display del cellulare.

Dovevo smetterla di chiamarla così, prima o poi mi sarebbe scappato anche davanti a lei.

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