Capitolo 38.

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Il numero da lei chiamato è spento, o momentaneamente non raggiungibile. La invitiamo a riprovare più tardi.

Dannazione, Jared! Era più tardi. Era il giorno dopo la partenza, erano passate più di dodici ore da quando avevo salutato Jared all'aeroporto. Ore che avevo passato cercando di non pensare all'espressione sul volto di Jared quando mi ero allontanata da lui, o ai suoi occhi scuri e profondi, velati dal terrore.

Chiusi la chiamata e allontanai il telefono dall'orecchio, sospirando. Era la quinta telefonata senza risposta, quella mattina. L'ennesima da quando ero atterrata ad Augusta, la sera prima. Avevo cercato di tenere l'ansia sotto controllo, mettere a tacere le mie paure e non lasciare che il panico prendesse il sopravvento. Avevo sentito quel messaggio così tante volte da conoscerlo a memoria, oramai.
Chiusi gli occhi e inspirai, intenzionata a mantenere la calma e a non lasciarmi prendere dal panico. Il telefono è spento, probabilmente è solo scarico, pensai, sistemando la gonna del lungo abito in  color Tiffany che indossavo.
Respira, va tutto bene. Aprii gli occhi e passai le mani sopra gli inserti in pizzo del corpetto stretto, godendo della piacevole sensazione del tessuto a contatto con le dita.
Non pensare subito al peggio, Alexandra. Incurvai le labbra in un sorriso e spostai i capelli dietro le spalle, per poi raddrizzare la schiena.

«Eccoti!» esclamò Jo, fermandosi al mio fianco. «Stai bene?»

Annuii. Non avevo raccontato alla mia amica quello che era successo all'aeroporto. Mi ripetevo che non aveva senso farlo, che mi stavo preoccupando inutilmente e per niente. Avevo detto a Jared che lo amavo, e lui non aveva risposto: non era grave. C'erano cose peggiori, al mondo. Ero la testimone di situazioni peggiori ogni domenica, quando mi recavo in ospedale per il mio turno di volontariato nel reparto di oncologia infantile. La realtà, era diversa: temevo la sua reazione. Il modo in cui avrebbe reagito al mio racconto avrebbe determinato il mio stato d'animo nelle ore successive: se avesse minacciato di evirare Jared, avrei riso e mi sarei sentita sollevata. Se, invece, mi avesse stretta a sé e avesse tentato di consolarmi, avrei capito che era grave.

Osservai la mia amica, lasciando scorrere lo sguardo lungo tutta la sua figura. I capelli castani erano pettinati in un'acconciatura semi-raccolta, adornata da piccoli fiorellini bianchi che sembravano formare una coroncina di fiori, che elegantemente le cingeva il capo. Il lungo abito color Tiffany, che lei stessa aveva scelto per le damigelle, faceva risaltare la sua carnagione e ne metteva in risalto le forme. Era bellissima, e ne era consapevole, Jocelyn si trovava perfettamente a suo agio con il corpo fasciato da quell'abito. Io, invece, avrei preferito qualcosa di diverso, magari un abito di un colore più scuro e che non mi facesse assomigliare ad una bomboniera.  Quello era il prezzo da pagare per essermi rifiutata di prendere parte attiva nei preparativi per il matrimonio. Non poteva fare altro che soffrire in silenzio e pregare perché il mio sacrificio venisse ricompensato, un giorno.

«Ti dona molto questo colore» mi complimentai con lei, cambiando l'argomento del discorso.

Jocelyn studiò il suo abito e mi sorrise, per poi ringraziarmi. «Dobbiamo tornare dentro» mi comunicò, indicando con un cenno del capo la porta che permetteva l'accesso alla sagrestia dall'esterno. «Il fotografo vuole fare altri scatti della sposa insieme alle damigelle.» aggiunse, levando gli occhi al cielo. «Questa giornata non finirà mai.»

Non potevo darle torto, tra Wendy e Jeoffrey -il fotografo- non sarei riuscita a stabilire chi fosse peggio. Gwendolyn, rinominata per l'occasione Sposazilla dalle sorelle minori, non aveva fatto altro che impartire ordini per tutta la mattinata. Sotto le sue indicazioni le parrucchiere si erano applicate per riprodurre l'acconciatura che lei stessa aveva scelto appositamente per noi e le truccatrici terrorizzate si erano rivelate impeccabili nel loro lavoro. Joeffrey, invece, era irascibile e sfacciato, sembrava che ritenesse lavorare con noi una tortura e si comportava come se dovessimo essergli grate per il solo fatto che esistesse nella nostra stessa realtà. Fu difficile non perdere la pazienza, quel giorno.

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