▪️Capitolo XXVIII

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Avanti, Shannon, corri.

Asciugo il mio viso sudato con il bordo inferiore della canottiera e strizzo gli occhi per controllare quanto manchi al traguardo. Sono all'ultimo giro e davanti a me rimane un ultimo ostacolo, ovvero l'altezzosa moretta del mio corso di letteratura.

Per di più, l'intera squadra di football tifa lei, perché è una persona alla mano e sempre con il sorriso sulle labbra. Io, invece, sono la sorella minore di Davis McCartney, la stanga stana e asociale; l'amica silenziosa della festaiola multicolore Alexis Brown. Eppure, Thomas continua a guardare me.

«Forza, Shannon!» grida, riportandomi sul pianeta Terra. Scuoto la testa e mi accorgo che mancano davvero pochi metri alla fine del percorso. Se voglio vincere, devo impegnare tutte le energie che mi sono rimaste e usare il turbo.

«Posso farcela» sussurro, dopo aver dedicato a Thomas un sorriso sudato. Le mie gambe accelerano il loro movimento e le mie braccia le sostengono, piegando i gomiti e saettando avanti e indietro. Il terreno non è altro che una lastra indefinita sotto ai miei piedi veloci.

La chioma castana della ragazza è presto alle mie spalle, come lo sono anche la linea bianca del traguardo e la mia insicurezza. Mentre avanzo ancora di pochi passi malfermi a causa della stanchezza, vedo Thomas avvicinarsi con il suo solito sguardo sicuro.

Scuote la chioma bionda, lanciando una breve occhiata alle altre ragazze che ora stanno prendendo profonde boccate d'aria sedute sulla terra battuta, e mima con le labbra la parola perdenti.

«Ce l'hai fatta» afferma, tirandomi il naso per gioco. Comincio a ridere, forse contagiata dal suo sorriso amichevole, o forse perché i suoi compagni di squadra stanno ballando in modo strano.

«È stata solo fortuna» replico, schiaffando via la sua mano fastidiosa dalle mie guance sudate. Thomas lo conosco da pochi mesi, ma non so come è riuscito a andare oltre la mia aurea di stranezze e imprecazioni intelligenti.

«No, McCartney, non è stata fortuna» mi corregge, allungando nuovamente la mano verso di me. «Ora sei pronta a giocare, non è vero?» Il suo incarnato abbronzato si decolora, lasciando il posto ad una tonalità smunta; le iridi diventano azzurre e spiritate, mentre le dita che provano a toccarmi si assottigliano. «Avanti, piccola Shy, dimmi che vuoi giocare.»

«No...» mormoro, ritraendomi dal mio incubo e dai suoi tentacoli ossuti «Vattene via!» aggiungo, allontanandomi sconvolta.

«La prossima volta che mi vedrai, sarà per giocare» asserisce alle mie spalle «Guarda, Shy, guarda ciò che nel futuro sarai abituata a vedere! Non scappare da quello che attende! Non puoi fuggire! Nessuno può.»

Le urla escono una dopo l'altra quando i miei occhi vedono i compagni di Thomas decomporsi sul campo e perdere ogni elemento umano, fino a trasformarsi in cumuli di ossa e organi martoriati dalla morte.

«Oh porco planisfero» biascico con il cuore in preda a pulsazioni estenuanti e violente.

Mi trascino ancora traumatizzata in bagno, dove, una volta accesa la luce, osservo il mio viso allo specchio. Raccolgo i capelli in una crocchia disordinata e provo a sciacquare via la sofferenza con tanta acqua fredda. Strofino la mia pelle pensando all'incubo, alla corsa che Ecs mi ha obbligata a fare, e avverto solo adesso le piastrelle gelate sotto ai miei piedi nudi.

È stato un sogno diverso. In realtà, anche il precedente presentava una variante significativa dai miei incubi passati: io non mi rendo conto di star sognando. Vivo i sogni che Xavier mi impone, e oggi ho rivissuto un ricordo un po' deformato. Ho rivisto Thomas, il mio migliore amico. In questi giorni i miei sogni sono sempre stati ricordi passati storpiati.

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