Capitolo XI

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Quando sei davanti a due decisioni, lancia
in aria una moneta. Non perché farà
la scelta giusta al posto tuo, ma perché, nel
momento esatto in cui essa è in aria,
saprai improvvisamente cosa stai sperando di più.
Bob Marley

La sveglia suonò alle sette e quarantacinque puntuali, suonando la canzone dei Pirati dei Caraibi, He's a Pirate, e dandomi la carica per iniziare quella prima giornata di un lungo anno scolastico.

Lasciai suonare la canzone, alzandomi e trascinandomi verso il bagno, per poi tornare e indossare i vestiti che avevo scelto la sera prima: un paio di jeans neri di cotone, una canottiera bianca con quattro frecce, due con la punta verso il basso e due verso l'alto, e un paio di ballerine scure, le uniche che avevo.

Mi legai i capelli in un veloce chignon e mi convinsi a perdere cinque minuti davanti allo specchio, rischiando di accecarmi mentre facevo il contorno occhi con la matita.

Non mi piaceva molto truccarmi e se lo facevo solitamente era matita nera leggera e un lucidalabbra. Con il fondotinta mi sentivo soffocare e le occhiaie, quando le avevo, erano impossibili da coprire.
E sarebbero ricomparse nel giro di qualche giorno visto che le vacanze erano finite e non potevo più alzarmi alle nove.
Fantastico, sarei tornata in versione zombie.

Mio padre era già uscito, il suo turno iniziava alle sei e non lo avrei rivisto fino a quella sera. Mi aveva lasciato un postit sul tavolo con un saluto e gli auguri per il mio primo giorno di scuola, di quarta liceo.

Stentavo anche io a crederci.

Presi l'acqua e una pentolina e la misi sul fuoco mentre cercavo nella credenza, nelle confezioni del tea, qualcosa per fare colazione insieme ai biscotti Abbracci.

Trequarti d'ora dopo il cellulare iniziò a vibrare e il messaggio che mia zia era arrivata mi costrinse a muovermi, chiudere velocemente le finestre e prendere lo zaino per raggiungerla in macchina.

*

Arrivai a scuola con sempre più ansia, anche perché non è che mi piacesse molto stare attorno alla gente. Mi sentivo sempre soffocare, altro motivo per cui non andavo in discoteca o ai concerti. Arianna aveva perso un pomeriggio intero per cercare un nome a questa mia fobia: demofobia. Anche se la mia non era una vera e propria fobia della folla. Io riuscivo a starci in mezzo alla gente ma all'inizio ero decisamente in soggezzione. Io la chiamavo timidezza, non fobia.

Le mie riflessioni vennero interrotte da Erika che mi venne incontro, salutandomi. Era una delle poche con cui avevo stretto amicizia in classe da quando avevano rimescolato le classi in seconda.

Arianna andava al classico, in un'altra scuola, e solitamente andavo a scuola con sua sorella che faceva il linguistico nella mia stessa scuola, e nello stesso plesso, ma lei era in Canada e da quello che aveva detto dai messaggi, si stava veramente bene e l'aria era decisamente migliore. Anche se faceva fatica a capire cosa dicevano.

– Ehi Sofi! Come stai? – domandò, fermandosi prima di abbracciarmi. Erika era parecchio espansiva, ma aveva capito che non mi piaceva essere abbracciata e allora evitava di farlo. Anche per questo aveva guadagnato il mio rispetto, e la mia amicizia in classe.

Le sorrisi, notando che si era tagliata i capelli scuri a caschetto e che gli occhiali erano spariti, sostituiti da lenti a contatto, che mettevano in risalto il marrone scuro dei suoi occhi. Era abbronzata e al posto dello zaino aveva una borsetta.

– Bene. E te? Com'è andata in Sicilia? –

Lei sorrise, come se non aspettasse altro che parlare di quello. Solitamente quando le persone fanno domande del genere raramente vogliono sapere la risposta, o vogliono che tu la faccia a loro, in modo da parlarti. Erika rientrava praticamente sempre nel secondo caso.

Come Neve D'EstateWhere stories live. Discover now