20 - Conforto morale

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15 novembre 2012

L'ospedale Juntendo ha l'aria di una struttura vecchia rimodernata più volte. Dentro, è come tutti gli ospedali: pareti verdastre, puzza di disinfettante, gente che va e viene senza guardare nessuno in faccia. Telefoni che vibrano, tutta un'umanità che lascia fuori dalle porte vetrate la vita quotidiana, i problemi che sembravano vitali diventano trascurabili di fronte al foglio stampato di un'analisi clinica.

Kei nella sua vita ne ha visti ben pochi di ospedali, ma li detesta comunque.

Per tutto il tragitto, scendendo da un treno e salendo sull'altro, camminando per le vie ventose e affollate di Tokyo, ha sospeso il lavorio del cervello. Ha semplicemente smesso di pensare, per evitare di dover fare i conti con le proprie incoerenze, con la parte di sé che non riesce a dominare.

Ma sono le 20:02 ed è già nell'ascensore C, diretto al quinto piano. Lo specchio un po' macchiato agli angoli gli restituisce la propria immagine: un adolescente occhialuto, alto e magro, avvolto in un cappotto grigio a doppio petto, col viso arrossato dal freddo seminascosto dalla sciarpa. In quel riflesso, Kei si vede molto più giovane di come si senta. E' davvero una cazzata da sedicenne, quella che sta facendo.

Per questo deve far ripartire il cervello. Ha imparato da ragazzino a bloccare e sbloccare il meccanismo, per puro istinto di sopravvivenza. E' come aprire una diga, bisogna farlo con calma, gradualmente, lasciando fluire i pensieri senza farsi travolgere.

Mentre il cicalino dell'ascensore annuncia l'arrivo a destinazione e si aprono le porte, Kei ha già riconsiderato tutta la faccenda e definito la propria posizione: conforto morale. La parola amico, nel contesto, gli dà la nausea, quindi è meglio evitarla. Anche perché di amici Kuroo ne ha già parecchi.

Adesso, prima di arrivare al secondo corridoio e svoltare a sinistra, Kei si sente nervoso. Non è stato invitato. Non è stato neppure messo a parte degli eventi dal diretto interessato. A tutti gli effetti, il suo è un atto di prepotenza mascherato da buone intenzioni. Sotto la facciata del buon samaritano, c'è un rammollito in ostaggio dei propri sentimenti, che si venderebbe l'anima per dieci minuti vicino a Kuroo Tetsurou.

E lui è lì, insieme ai suoi veri amici. Kei li scorge da lontano, in fila sulle sedie di plastica blu del corridoio. Per primo Kozume, con le gambe ripiegate e i talloni sul bordo della seduta, intento a giocare alla playstation. Accanto a lui Kuroo, seduto,  piegato in avanti, i gomiti puntellati sulle ginocchia e il viso fra le mani. A ogni respiro la sua schiena si alza e si abbassa. L'istinto di correre a inginocchiarsi lì davanti e abbracciarlo fa venire a Kei voglia di prendersi a schiaffi. Respira a fondo e riapre gli occhi.  Bokuto è per terra, con la testa all'indietro poggiata contro la seduta di plastica e il corpo inclinato verso Kuroo, a contatto con la sua gamba. E' una forma di empatia fisica, perché in Bokuto un po' tutto è fisico. Ogni tanto tira sul col naso e si strofina la faccia, il suo piede sinistro, come il suo senso della realtà, restano saldamente ancorati alla caviglia di Akaashi, che siede composto, le mani affondate nelle tasche del giaccone, gli occhi socchiusi. Sembra stia meditando.

Kei si fa indietro un paio di passi e tira fuori il telefono.

Sono qui. Alza lo sguardo.

Sente il trillo del messaggio consegnato, e si sporge dall'angolo quel poco che basta per incrociare gli occhi di Akaashi, allargati per la sorpresa.

Puoi darmi cinque minuti?

E' una frase criptica, ma sa che Akaashi capirà.

Poco dopo, infatti, si sente la voce impastata di sonno di Bokuto che si lamenta di doversi alzare.

Tsuki No Hikary (#KuroTsuki)Where stories live. Discover now