35 - L'aggettivo giusto [18+]

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24 marzo 2012 

[NdA l'anno scolastico giapponese inizia ad aprile e finisce a marzo.]

La cosa che Tsukishima Kei odia di più al mondo è trovarsi costretto, in tutti i sensi più o meno lati che la parola può assumere: chiuso, messo all'angolo, legato, coatto. 

Soffocato è l'aggettivo giusto. Talmente giusto che è una causa di morte.

Eppure, Kei ama gli spazi ristretti. Li ha sempre amati.

A sei anni si infilava negli armadi, si nascondeva in quell'angolino buio del sottoscala della casa al mare, la sera nel letto si tirava le coperte fin sopra la testa e poi accendeva una lucina da lettura minuscola (un regalo di Aki per il primo giorno di scuola) e giocava ancora un po' con i modellini, in quel bozzolo caldo in cui l'unico respiro e l'unico odore erano i suoi.

E' l'idea confortevole, soffice, pulita di un posto che sia allo stesso tempo luogo e non-luogo e che coincida con la forma della propria solitudine, o, più esattamente, con quella della compagnia di se stessi.

A papà piace la precisione lessicale e quindi Kei ci ha pensato su un bel po', a quale fosse l'aggettivo giusto. E l'aggettivo giusto era: intimo.

Crescendo, intimo è diventato un concetto incerto, a tratti confuso. E per niente giusto. Ha qualcosa a che vedere con quel corpo indisciplinato, che si permette di cambiare così tanto senza preavviso, senza regole, senza un chiaro foglio di istruzioni. Cambia da un giorno all'altro, mentre tutto quello che c'è intorno resta identico. Si allunga, come se lo tirassero dall'alto. E va a finire che il pavimento, i suoi stessi piedi, il centro del mondo e tutti quei miliardi di abitanti diventano sempre più lontani.

Per uno che è miope - parecchio miope - rischia di essere un problema. Perché si perdono i contorni e la gente diventa una massa unica di preconcetti, prevenzioni, ridicole fissazioni, mode incomprensibili, gerarchie insensate, regole così stupide che obbedire è un insulto.

Se cerca di abbassarsi, per guardare qualcuno da vicino, va a finire che diventa troppo vicino e l'eccesso di prossimità è un rischio inaccettabile. La via di mezzo, la giusta distanza non la trova mai. Forse non esiste, oppure è una linea così sottile che si smarrisce tra una risposta scorbutica e l'altra, tra una canzone e l'altra sparate nelle cuffie mentre qualcuno ti parla, tra una sferzata di sarcasmo e un insulto velato, infierendo sulle debolezze degli altri per non mostrare le proprie.

Un paio di occhiali per guardare negli occhi la realtà e una cuffia in testa per tenere la giusta distanza: a Kei non serve altro, non serve nessuno. Neppure un padre.

Indipendente è l'aggettivo giusto. E in prima media si è già infiltrato sottopelle, come un tatuaggio enorme, che tutti riescono a vedere anche se non con gli occhi.

Indipendente. Kei se lo ripete come un mantra, mentre si abbraccia le ginocchia e ci nasconde in mezzo la faccia, raccolto su se stesso, compresso.  Indossa la solitudine come un guscio di lumaca e continua a ripetersi quella parola.  Indipendente. Indipendente. Indipendente. 

Le cose, a furia di dirle, diventano vere.

A dodici anni compiuti, gli spazi ristretti gli piacciono ancora. Non più perché sono intimi, ma perché sono privati, e quindi sono sicuri.

Sicuro è mille volte più importante di intimo ed è senza il minimo dubbio l'aggettivo giusto.

Dodici anni è l'età in cui ha capito una cosa importante: che comunque te la raccontino, la vita è uno di quei giochi d'azzardo in cui conta molto il culo e pochissimo la strategia.

Tsuki No Hikary (#KuroTsuki)Where stories live. Discover now