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2 maggio 2011

Ciao Kei,

è la terza volta che ricopio questa lettera senza sapere se la leggerai.

Ho deciso di farne sei copie manoscritte e ho incaricato una persona di fiducia di consegnartele, facendo un tentativo ogni due anni. Mi aspetto che almeno le prime tre facciano una brutta fine.

Per sicurezza, poiché non mi sento di escludere che le farai a pezzi tutte quante, alla stessa persona ho lasciato anche una copia digitale e le indicazioni perché tu possa trovare la password.

Mi piace pensare che, prima o poi, in una natura analitica com'è la tua, la curiosità supererà il risentimento e il dolore che ti ho inflitto sarà solo un'ombra del passato, scalzato via, io spero, dalle felicità future.

A quel punto, forse, avrò di nuovo la mia occasione di parlarti.

Ho bisogno di crederci.

Credere è un verbo che, nella vita, ho utilizzato troppo poco; implica un tipo di convinzione radicata e incrollabile che ho sempre faticato a trovare in me stesso e, di conseguenza, a offrire agli altri. Sono un pessimo comunicatore, anche se in molti pensano il contrario. Tu invece, che sono pessimo, lo sai benissimo.

In questa stanza di ospedale spendo molto tempo a immaginarvi adulti, te e Aki.

E' un esercizio mentale che mi porta a un livello di serenità insperato, considerata la situazione. Ho scoperto che è facile fantasticare a occhi aperti, che viene naturale, che dà persino soddisfazione, con in più il vantaggio di non doversi spendere di persona, di non dover affrontare nulla. La verità è che non ci avevo mai provato a fare sforzi d'immaginazione, prima d'ora. Il che mi rende, in effetti, una persona triste, come mi hai detto tu quando avevi dieci anni.

Dieci? Così pochi? Sei sempre stato precoce. Hai anche detto meschino, nella stessa occasione, e io non trovai di meglio che complimentarmi per il tuo lessico.

La cosa triste e meschina è che, in quel momento, pensavo che l'ampiezza del tuo vocabolario fosse realmente più importante dell'opinione che avevi di tuo padre. Quella l'avresti cambiata col tempo, mi dicevo. E' la fase della ribellione, il complesso edipico, la preadolescenza. Una gran quantità di scuse, per nascondere la paura che avevo di non riuscire a mostrarti il mio affetto.

E indovina? Non ci sono riuscito.

Non ho mai avuto un vocabolario di emozioni sufficiente. Non ho mai saputo come costruirlo, le rare volte che ne ho avuto l'occasione ho pensato di passare oltre, perché c'era sempre qualcosa che sembrava più importante, più urgente.

E' paradossale che abbia tempo per rifletterci proprio adesso che il mio tempo sta scadendo. In effetti, non ho memoria di un altro periodo nella vita in cui avessi così poco da fare; anche la mia infanzia era piena di incombenze.

E invece qui dentro le ore e i minuti mi appartengono e non so più dire se siano troppo veloci o troppo lente. Troppo veloci per uno che sta morendo, troppo lente per uno che sa di stare morendo.

La verità, Kei, è che con la mia morte ho fatto pace. L'ho sentita arrivare, l'ho guardata in faccia. Ho scoperto che ha un volto gentile, che non mi fa paura.

Kei, mi fa paura la vita. Non è un'iperbole drammatica, sai che odio gli eccessi e anche di più il dramma. E' una pura constatazione: mi fa paura la vita che ho vissuto molto più della morte che ho scelto.

E forse questa è la prima delle cose di cui dobbiamo parlare.

Come si fa a non sprecare una vita?

Tsuki No Hikary (#KuroTsuki)Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora