24 - Riportami il guanto

266 26 11
                                    

16 novembre 2012

Il telefono squilla e Kei lo osserva muoversi da solo sul piano del tavolo della caffetteria; si sposta qualche millimetro ad ogni successiva vibrazione, mentre la suoneria aumenta di volume. Il nome del chiamante è in caratteri cubitali sullo schermo.

«Rispondi o no? Almeno zittiscilo!» abbaia il tizio seduto al tavolo accanto, di fronte a una ragazza con la gonna troppo corta e il naso troppo lungo. Kei lo guarda senza reagire, l'altro risponde con un gesto osceno, la ragazza sbuffa, il telefono smette di squillare.

Mentre cerca di mettere in ordine i pensieri, Kei continua a grondare acqua dai capelli e dai vestiti. L'addetto alle pulizie lo sta guardando in cagnesco da quando ha varcato la soglia, disseminando di impronte il pavimento lucido.

Ha appena ripulito gli occhiali dalla condensa e mandato giù il primo sorso di caffè quando il telefono riprende a squillare. Il tizio si volta di scatto e lo fulmina con uno sguardo assassino, Kei gli mostra il dito medio mentre risponde.

«Tsukki-kun, stai bene? Dove sei?» domanda la voce di Akaashi. Preoccupato, ma non ansioso.

«Non so come sto e al momento non so neanche esattamente dove sono. Lui è lì con te? Sta ascoltando?»

«Kuroo-san? No, non è qui. Ma ha chiamato centomila volte nell'ultima ora.»

«Ti ha raccontato tutto?»

«Quasi niente. Ha detto che è successo qualcosa che ti ha fatto scappare via da casa sua e non riesce a trovarti. Ti sta cercando dappertutto.»

«Dovrebbe smetterla di fare il buffone e pensare a suo nonno.»

«E' quello che gli ho detto io.»

Tacciono entrambi, per un tempo molto lungo, finché Akaashi non rompe il silenzio: «Ne vuoi parlare?»

«Non più di quanto tu voglia parlare con me di Bokuto.»

Dall'altra parte di nuovo silenzio, per diversi secondi. Poi una voce educata, formale e fermissima: «San. Bokuto-san, non è tuo fratello.»

«Okay. Scusami.»

«Hai un carattere di merda, Tsukki-kun. Credo di avertelo già detto» risponde Akaashi con encomiabile tranquillità.

«Stiamo dicendo che non faremo finta che quella telefonata ubriaca non sia mai avvenuta?»

«Vorrei poter dire che faccio schifo a fingere, ma non è vero. Sono un esperto. La verità è che con te preferirei evitare. E' uno spreco di energie.»

Nel linguaggio di Akaashi è praticamente un'offerta di amicizia. La prima che Kei abbia mai ricevuto, escluso l'attaccamento infantile di Yama.

«Concordo sul limitare gli sforzi non necessari. Quindi, sarò diretto: Kuroo. Non voglio vederlo. Non so se voglio parlarci. Sicuramente non voglio adesso

Akaashi esita. «Allora non andare alla stazione Omiya. Credo che ti stia cercando lì. Pensa che tu voglia tornartene a casa.»

Era il piano iniziale di Kei, correre a Osaki a leccarsi le ferite: seppellirsi in casa, leggere haiku fino a star male, studiare finché non bruciano gli occhi. Giocare a pallavolo. Murare tutte le veloci dei due idioti e rompersi un altro paio di dita. Un ottimo piano.

«Grazie.»

«Dimmi la verità: ti ha fatto qualcosa?»

«No» è la risposta istintiva. «Non direttamente. Non volontariamente. Almeno credo.»

«Va bene. Hai un posto dove stare? Posso fare qualcosa?»

Kei si sente così grato per queste domande, che all'improvviso vorrebbe vuotare il sacco con Akaashi. Raccontargli tutto, per filo e per segno, da marzo dell'anno scorso ad adesso. Ma è un'idea molto stupida.

Tsuki No Hikary (#KuroTsuki)Where stories live. Discover now