Capitolo 15

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Rientriamo a casa. Il soggiorno è avvolto nel silenzio. Accendo la luce e vedo mia madre sul divano che fissa una vecchia foto sul telefono. Dominic appende la giacca e si congeda. Lascio il borsone accanto al mobile con l'orologio e mi avvicino a lei. Mi sistemo tra i cuscini e mi appoggio alla sua spalla. Lei mi sfiora col mento. Il suo battito è regolare, come fosse capace di controllarlo. Vorrei avere la sua stessa capacità ogni volta che ho un crollo emotivo. Le cingo le spalle col braccio e lei mi mostra l'immagine che sta guardando sullo schermo. Mi rimetto composta e la osservo meglio. C'è una gigantesca torta in primo piano e tante persone dietro di essa con delle candele colorate. Leggo la data segnata al margine della foto. È del giorno del compleanno di mia madre e di mia zia Ginevra. Quest'ultima sta con la testa sopra la torta e tiene mia madre stretta vicino a sé. Con loro, un po' spostato sulla sinistra, c'è mio zio Dominic a braccetto con una ragazza. Riconosco anche Brovies sulla destra che sta seduto sorridente assieme alle sue giocatrici. Vicino a mia madre noto anche la nipote della Pres, Lucrezia. È l'unica con la divisa differente ma sembra un tutt'uno con le altre.

«Era un pomeriggio di primavera e abbiamo fatto un picnic in giardino.» racconta mia madre. «Abbiamo invitato la squadra e la mia amica Lucrezia. I nostri genitori non c'erano e quindi loro si sono offerti di occupare il loro posto. Erano la nostra famiglia. Eravamo reduci dalla semifinale e più che una festa di compleanno, era in realtà un party per la vittoria.»

«Sembravate felici.»

«Sì, lo eravamo.»

Spegne il telefono e sospira.

«Ginevra era la parte migliore di me, la mia vera ed unica amica. Ancora non ci credo che non sia qui, che non abbia potuto conoscerti. Sarebbe stata così fiera di te e sicuramente avrebbe realizzato un mega striscione per la tua partita.»

Prende i fazzoletti e si soffia il naso.

«Era un palleggiatore ed era anche parecchio brava, al di sopra della norma. Non era questo però, che l'aveva resa capitano. Era il suo carisma, la sua voglia di non arrendersi mai che l'aveva portata ad occupare quel ruolo. Aveva coraggio, grinta e in un certo senso, ti assomigliava.» singhiozza poggiando il telefono sul tavolo. «Quel giorno Nena voleva a tutti i costi vincere. Si era alzata e aveva gridato a gran voce: "Riley, quest'anno vinceremo!" Ed era corsa alla macchina per raggiungere il palazzetto. Alla fine del quinto set eravamo in vantaggio e mancava solo un punto per aggiudicarci il titolo. Lei era conscia della pressione sugli attaccanti, l'allenatore voleva a tutti i costi che facessero un punto ma erano, anzi, eravamo, allo stremo delle forze. Nena a quel punto ha spiccato un balzo e ha schiacciato di seconda intenzione. Le avversarie non sono nemmeno state in grado di vedere la palla che arrivava dalla loro parte del campo. Così da sola, ha concluso la partita e ci ha fatto vincere.»

Si asciuga nuovamente il naso e io le stringo la mano.

«Tutti esultavano, si stringevano tra di loro e cantavano un'orrenda canzoncina per festeggiare. Nessuno si sarebbe aspettato quello che accadde. Stavo in mezzo al campo e ad un certo punto però, è piombato il silenzio. Tutti fissavano qualcosa alle mie spalle. Rammento di essermi voltata e di averla vista a terra. Aveva smesso di respirare, il suo cuore si era fermato. Arrivati in ospedale ci dissero che la causa era stato un trombo in una vena del cervello. All'epoca non capii altro che le parole del medico che susseguirono le cause del decesso: "Mi dispiace, purtroppo non c'è stato nulla da fare". Non ho voluto vedere il suo corpo. Non esisteva che fosse morta. Ginevra era poi stata lasciata sul lettino, lavata e preparata per il funerale. Entrai solo quella mattina a vederla. Era pallida, senza l'angolo della bocca che si inclinava in un sorriso. In pratica, era irriconoscibile. Quell'immagine del suo corpo senza vita mi è rimasta impressa ma non più dell'averla vista esanime in mezzo al campo. Doveva essere il giorno più bello della nostra vita, invece si è trasformato in un incubo.»

Mia madre si volge verso di me e mi sfiora il volto. Le sue mani sono gelide.

«Mi dispiace per la partita.» Dice. «Evidentemente non sono ancora pronta ma almeno ho potuto vederti giocare anche se solo per qualche set. Di questo ti ringrazio.»

Si alza e si ritira nella sua stanza. Io rimango in soggiorno. La testa mi scoppia. Provo a sdraiarmi e a prendere il cellulare. Sentire la voce di Robin solitamente mi aiuta.

«Ehi, Lex. Va tutto bene? Prima sei scappata.»

In realtà mi sono nascosta ma va bene lo stesso.

«Ti va se parliamo d'altro?» La supplico. «Di qualsiasi altra cosa ad eccezione della partita.»

«Come sta tua madre?»

Sospiro e mi gratto la fronte.

«Scossa ma meglio del previsto. Senza che glielo chiedessi mi ha raccontato cos'è successo a mia zia. Non credevo che ne sarebbe mai stata capace.»

«È un buon segno, no?»

«Mi ha detto però che non è ancora pronta per sopportare qualcosa come quello che è successo oggi. In pratica non credo che sarà presente alla finale.»

«Sicura che non ci sia un modo per convincerla?»

Mi metto a sedere e un pensiero mi passa per la mente.

«Forse.»

Lascio cadere il telefono e recupero il borsone.

«Lex? Ci sei ancora?»

Cerco tra le mie cose e prendo la giacca. Tiro fuori la lettera con la lista di nomi compilata da mia madre e riprendo il cellulare.

«Io e mio zio non possiamo farle cambiare idea ma forse so chi potrebbe riuscirci.» dico facendo il possibile per non alzare troppo la voce. «Ricordi la lista di cui ti ho parlato? Quella con tutti i nomi elencati dal primo all'ultimo membro dell'ex squadra di mia madre? Se rintracciassi ogni singola persona della lista, magari potrei trovarne una o più che potrebbe aiutarla a superare il trauma.»

«Già mi piace l'idea. Quando cominciamo?»

La Squadra Del 2000Where stories live. Discover now