Capitolo 30

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Mentre uscivo dall'aula con la testa che mi scoppiava, una mia compagna mi prese per il braccio.

– Quando è che fai tornare Marco? L'altra volta non ho fatto in tempo a chiedergli una foto. – mi disse mentre continuavo a camminare imperterrita, e lei si era attaccata a me come un zecca.

– Lasciami in pace. – dissi bruscamente, e con un colpo secco del braccio me la staccai di dosso. La lasciai lì, delusa e senza uno scopo nella vita. Non capivo ancora come quell'essere fosse arrivato al terzo anno di medicina.

Corsi verso la metro, visto che quella mattina Marta mi aveva rubato l'unica macchina che avevamo. Ero stanca e in quel momento avrei voluto solo andare a casa e giocare con Spettro, ma Andrea mi aveva chiamato la mattina presto, chiedendomi di andare in ospedale da lui dopo l'università. Dal suo tono sembrava si trattasse di una cosa veramente importante, e dopo la nostra litigata che forse lui non aveva ancora archiviato, glielo dovevo.

Non appena entrai, l'infermiera mi disse dove fosse Andrea, riconoscendomi. Presi l'ascensore, e mi ritrovai con un bambino che teneva la mano alla madre.

– Mamma, e se mi farà male? – gli chiese lui con voce tenera. Io non potei fare a meno di sorridere a quella scena.

La madre lo guardò, incerta. Probabilmente non sapeva neanche lei cosa rispondere. Non sapevo quale fosse il problema di quel bambino, ma i bambini avevano qualcosa di speciale. Avevano più possibilità di farcela nella maggior parte dei casi, rispetto agli adulti. Perché quel bambino dove essere spaventato? Non c'era niente che non potesse superare.

– Tranquillo, non sentirai niente. E quando tutto sarà finito, ti sentirai ancora più forte. – gli sorrisi.

– Come un supereroe? – mi chiese con il viso che si era illuminato.

– Sì. – ridacchiai, accarezzandogli i riccioli biondi.

– Lei è un medico? – mi chiese la mamma, che era rimasta quasi affascinata dalla mia capacità di risollevare il figlio. Lei non c'era riuscita perché era preoccupata almeno il doppio di quanto non lo fosse lui, ed io me ne ero accorta. I genitori non erano supereroi, a differenza dei bambini. E lui crescendo l'avrebbe capito.

– Non ancora. – le sorrisi, uscendo dall'ascensore. In quel momento Andrea mi chiamò dal fondo del corridoio.

– Ehi. Che succede? – gli chiesi quando lo raggiunsi.

– Vieni. – mi prese la mano e mi condusse in uno di quei ripostigli nel quale ci eravamo dati il primo bacio.

– Avevi ragione tu! – bisbigliò, prendendomi per le spalle. Aveva un'espressione indecifrabile: sembrava euforico e al tempo stesso tristissimo.

– Su cosa? – gli chiesi, ma non appena parlai, il mio cervello si era già dato la risposta.

– Non mi dire. – dissi spaventata.

– Lo so. È al tempo stesso un bene e un male. Lo abbiamo finalmente scoperto, per fortuna, ma comunque il fatto che Sara abbia un tumore al cervello non è una cosa positiva. – disse lui passandosi una mano fra i capelli dorati.

– O mio dio. – mormorai. Dovevo essere felice perché ero riuscita a fare una diagnosi così su due piedi, o triste e arrabbiata con il destino per la sedicenne che stava per morire?

– Non pensare in negativo, okay? Hai fatto una diagnosi che per qualche stupido motivo l'ospedale non è stato in grado di fare. Credo che ci siano stati degli errori, e credo che i risultati della risonanza siano stati scambiati con quelli di un'altra paziente. Ma è solo grazie a te che il dottor Rossi ne ha fatta fare un'altra. Ti avrà anche trattato con poco rispetto, ma non ha ignorato la tua ipotesi. Sei grande, Emma. E voglio che tu rimanga con me in questo percorso. – mi disse con gli occhi che gli brillavano per l'adrenalina.

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