Capitolo 3

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Mi diressi agli allenamenti subito dopo la scuola, come al solito. Il mio pranzo consisteva in una pasta di farro in bianco contenuta dentro uno scaldavivande e mangiata appena arrivata alla polisportiva. Dal mio liceo scientifico Giordano Bruno ci impiegavo circa dieci minuti in bici ad arrivare alla polisportiva, quindi mi conveniva andarci direttamente. Era da quando avevo cominciato il liceo che non tornavo più a casa per pranzo e il contenitore scaldavivande era diventato il mio fido compagno. Non c'era ancora nessuno a quell'ora, quindi potevo concedermi qualche minuto di solitudine.

Era abbastanza caldo quel pomeriggio, così decisi di mangiare all'aperto. Occhiali da sole addosso e mi sedetti nel campo interno alla pista. Mangiai con calma, la pasta era tiepida e quasi insapore, la dolcezza stava tutta nelle fragole e nella mela che mi pappai dopo. Terminai il pasto, misi tutto dentro la borsa e mi sdraiai a prendere un po di sole con la testa appoggiata alla borsa di atletica. Mi serviva un po' di relax. La mattina a scuola era stata pesante con un'interrogazione e una verifica. Ormai si avvicinava la fine dell'anno scolastico ed era come se un orologio metallico scoccasse ad ogni nuova prova, battendo il tempo che mancava alla fine di quell'ennesimo anno di fatica sui libri. L'interrogazione di latino era andata bene, avevo preso otto che restava uno dei voti più alti della classe e la verifica di matematica era andata liscia tanto che riuscii a finirla in mezz'ora annoiandomi a morte, visto che gli esercizi di trigonometria erano stati facilissimi, o almeno per me e non mi ero nemmeno presa la briga di esercitarmi tanto i giorni prima. Volevo godermi quel momento di tranquillità senza accendere il lettore mp3.

Ad un tratto sentii dei passi dietro di me, muovevano l'erba sfregandola. Dall'incedere mi sembravano di un ragazzo, troppo pesanti per essere una donna, nemmeno Asia era così pesante. Una borsa cadde seguita da uno zaino, non mi voltai, vidi solo un'ombra muoversi a fianco a me, a pochi passi di distanza. La persona si sedette e io mi voltai. Era Lorenzo Longhi. Non disse una parola, mi fece un cenno con la mano che io ricambia un po' interdetta. Aveva rovinato il mio momento di pace. Si sedette a fianco a me e iniziò a mangiare un panino con i Ray-ban a coprirgli gli occhi e almeno rimase zitto!

Mancava almeno un'ora all'arrivo degli altri, così io continuai nella stessa posizione in silenzio e Lorenzo pure. Quando terminò il panino, si sdraiò sull'erba come me. Era la prima volta che lo vedevo lì così presto. Avevamo iniziato a correre alla stessa età e lui era sempre stato uno forte. Avrò parlato con lui forse solo due volte in tutta la carriera sportiva. Non sapevo che scuole avesse frequentato prima, non erano mai le mie, questo lo sapevo. E ora da Riccardo avevo scoperto che frequentava il liceo classico del centro città, Raimondo Franchetti. Insomma, mi sa che avevo un secchione nella squadra che fino al giorno prima non pensavo di avere. Era sempre stato un atleta molto forte, come il suo caro amico Samuele. Eravamo i tre della squadra che si garantivano sempre una posizione sul podio ai campionati nazionali. Ma lui non sapevo come. Samuele per quanto antipatico era uno che si impegnava, seguiva una vita sana e non lo si vedeva mai agli allenamenti e alla gare in preda a una sindrome post sbornia. Lorenzo invece si, sentendo le voci dello spogliatoio si era fatto fare un bel servizio di lingua da tutte quelle della squadra e forse qualcuna aveva offerto il pacchetto completo con lui. Dicevano pure che era ben dotato, detto da Elena, la troia. Ma sentivo anche che andava spesso in discoteca a farsi tutte quelle che si concedevano e beveva. Si piazzava lo stesso tra i primi posti alle gare, ma avrebbe potuto vincere tranquillamente. Era cambiato da quando era piccolo, era diventato l'estremo opposto, da timido con le ragazze, ora se le faceva tutte. E io andavo fiera di essere l'unica che non gliel'aveva mai data e mi vantavo di confermare sempre il primato.

Stranamente non puzzava da alcool, però era agitato. Notai più volte con la coda dell'occhio che si metteva a sedere, mi scrutava come se mi volesse parlare, ma io non gli davo la soddisfazione rimanendo impassibile e poi tornava giù.

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