Capitolo 36

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La notte non riuscii a chiudere occhio. I farmaci che i medici mi avevano somministrato, calmavano il dolore fino ad un certo punto, sentivo comunque un lieve pizzicore sulla caviglia e sulla costola. Ma non fu solo questo a tenermi agitata durante la notte, il ricordo della caduta, gli occhi furiosi di Giulia e la cattiveria di Asia mi martellavano la mente. Erano riuscite nel loro intento di mettermi fuori gioco, davanti a tutti, in modo che la mia umiliazione diventasse di dominio pubblico. La presenza di Lorenzo aveva mosso in me un senso di fastidio, solo il suo viso mi rimandava indietro a tutti i ricordi dell'atletica, ma non quelli belli, quelli più terribili, come se la mia storia con lui non fosse mai stata reale. E piansi. Piansi perché l'atletica mi aveva portato solo dolore e ora non sapevo nemmeno se sarei potuta tornare sana come prima. I medici e i miei genitori avevano organizzato tutte le terapie e fissato i vari appuntamenti, ma mi ritrovavo ad osservarmi intorno persa nel vuoto.

Senza l'atletica sentivo come una grossa parte di me svanire lontano. Una parte che avevo imparato ad odiare e ad amare allo stesso tempo, ma che ora mi aveva dato il colpo definitivo. Era come se uno spirito dall'alto mi avesse voluto dire: "Smetti, non ne vale più la pena, non è più il tuo mondo". Ma allora qual era il mio mondo. Oltre all'atletica cos'altro avevo?

La mattina un'infermiera venne a controllarmi e a cambiare la flebo. Odiavo gli aghi, ma in quel momento nemmeno li percepivo a contatto con la mia pelle. Un ago non era niente a confronto con il dolore che provavo in tutto il corpo.

Purtroppo io non sono mai stata capace di mentire e l'infermiera notò subito il colore dei miei occhi, non avevo dormito. Chiamò allora l'ortopedico di servizio. Non ascoltai nemmeno quello che si dissero. Ero persa, il mondo esterno non esisteva più per me.

Poco dopo mi portarono la colazione. Io che ero solita riempirmi con un sacco di cibo a colazione, quella mattina feci persino fatica a terminare la tazza di tè.

Appoggiai faticosamente il vassoio sul comodino, la costola mi faceva male. Mi guardai intorno, i letti erano vuoti. Ero sola.

Piansi ancora, ma i singhiozzi acutizzarono ancora di più il dolore all'addome. Provai a fermarmi, ma non ci riuscii. Il respiro divenne sempre più affannoso e mi prese il panico, tanto che il mio cuore accelerò i battiti. Mi comparve in mente l'immagine di Lorenzo che correva in mio aiuto, ma lui non c'era e io l'odiavo. Lo odiavo perché rappresentava l'atletica, perché era stato amico di quelle che mi avevano provocato tutto quel male. Lo odiavo perché era stato troppo gentile, troppo stronzo, troppo perfetto per essere vero. Lo odiavo perché mi ero lasciata andare con lui, quando non dovevo. Lo odiavo perché si era preso la parte più intima di me. Lo odiavo perché sicuramente centrava anche lui con quello che era successo. Lo odiavo perché mi aveva illusa. Lo odiavo perché era lui.

Urlai tutto il mio dolore e la mia frustrazione. Urlai tutto l'odio che avevo in corpo. L'infermiera della mattina mi sentì ed entrò in camera allarmata. Mi fece fare dei respiri profondi, ma non aiutavano. Uscì di nuovo di corsa e rientrò con l'ortopedico.

-E' un attacco di panico- disse il medico. La vista si offuscò e mentre stavo per perdere i sensi vidi il medico iniettarmi qualcosa sul polso con una siringa. E il mio corpo si rilassò quasi all'istante.

-Come ti senti?- mi chiese il medico.

Io non risposi. Come pensava mi sentissi? Felice? Ero furiosa. Avrei voluto urlare, ma il sedativo aveva bloccato ogni mio tentativo di ribellione.

-Impotente- provò a dire il medico.

-Furiosa, umiliata. Come crede che mi senta?- gli dissi a denti stretti per la rabbia.

-Lo so, ma se segui le terapie tornerai come prima- concluse uscendo. L'infermiera lo seguì prendendo il vassoio della colazione e io rimasi di nuovo sola.

Corri da meWhere stories live. Discover now