36. Defiance

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Sapevo che lui era dietro quella porta, mentre io ero inquieta nel mio letto d'ospedale, visto che mi rifiutavo di occupare un'altra camera

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Sapevo che lui era dietro quella porta, mentre io ero inquieta nel mio letto d'ospedale, visto che mi rifiutavo di occupare un'altra camera. Ancora ero confinata in quella stanza nel frattempo che sistemassero la mia e, dopo le continue lamentele, mi avevano detto che la notte successiva sarei potuta tornarci.

Fortunatamente ero al piano terra perciò non doveva esser molto complicato per me sgattaiolare via da lì. Almeno non dovevo calarmi dal secondo piano della villa, che era decisamente alto. Dovevo andare in quella insulsa casa abbandonata, lontano da occhi indiscreti e fumare chissà che cosa.

Quella vocina insidiosa mi disse all'orecchio: guarda cosa si è ridotta a fare Megan Tanner!

Sospirai e scostai dalle gambe nude il lenzuolo di quel tessuto grezzo che faceva irritare la mia pelle. Infilai un jeans non troppo stretto, delle scarpe comode e una felpa con il cappuccio che avevo richiesto quella sera. A giudicare dal tempo che le cameriere ci avevano impiegato per svolgere quel compito, avevo dedotto che era stato più che difficile trovare quel capo nel mio guardaroba. Non sapevo neanche di averne mai indossata una...

Guardai l'orologio. Era l'una passata e probabilmente avrei dovuto aspettare altro tempo, ma proprio non riuscivo a restare nel letto con il cuore a mille per quel che avrei fatto quella notte.

Così andai alla vetrata e pregai che nessun cigolio provenisse dalla maniglia un po' vecchiotta mentre la aprivo. La casa era stata ristrutturata, ma come avevo detto in alcune zone c'erano ancora strascichi del passato.

Quando uscii sul balconcino maledii mio padre per non aver fatto costruire delle scalette che conducevano al giardino, visto che arrivati a quel punto avrei dovuto scavalcare la balaustra in cemento bianco.

Sostanzialmente mi trovavo sul retro della casa, che era posta a ferro di cavallo e nonostante lo spiazzale lì fuori era molto ampio, mi ritrovai circondata da alte mura bianche. La luna in quel caso non mi aiutò e tutte le ombre che il giardino ben curato facevano creare non erano per niente rassicuranti.

Repressi un brivido, cercai di chiudere alla bell'e meglio la vetrata e scavalcai la balausta.

Non era decisamente saggio quel che stessi facendo. Campanelli d'allarme e insegne al led risuonavano e splendevano nella mia testa, ma dovetti ignorare anche quelli. Soprattutto quando mi ritrovai a cadere tra i cespugli proprio sotto il basso balcone, che mi risucchiarono e si risistemarono come se non ci fossi mai capitata in mezzo.

«Cazzo», mi lamentai e gemetti per il dolore alla schiena e al resto del corpo. Le foglie erano dappertutto ed io ero stesa per terra tra tutta quella vegetazione. Al solo pensiero di insetti e animali che vi si agitassero con le zampette pelose... scattai come una molla al di fuori. Rabbrividendo per lo schifo e togliendomi di dosso ramoscelli e piccole foglioline tra i capelli e i vestiti, mi aggirai tra i giardini.

Poi mi resi conto di quel che avevo detto. Ma da quando dicevo parolacce? L'influenza di Jackson ormai si sentiva. Imprecava spesso sottovoce e lo sentivo ogni volta, facendolo diventare anche per me un'abitudine. Se non avessi tenuto chiusa quella bocca probabilmente avrei fatto qualche figuraccia davanti persone facoltose a qualche festa.

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