38. Vengeance

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Jackson

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Jackson

Osservai il viso di Megan mentre dormiva. Aveva la bocca semiaperta e le ciglia quasi toccavano le guance per quanto fossero lunghe.

Fu più forte di me. Le passai una mano sulla tempia e finii sui capelli, scostandoli e accarezzandola dolcemente. Non volevo svegliarla, ma spesso l'impulso di entrare in contatto con lei mi faceva agire senza pensare.

Era tranquilla ed io ero appagato alla sola vista.

Mi bastava saperla al sicuro, vedere che fosse felice.

E quello che stavo per fare quella sera era solo ed esclusivamente per lei. Per Megan e per vendetta.

Mi avrebbe detestato un po' quando avrebbe scoperto che avaro agito senza dirle nulla o senza permetterle di venire. Sapeva anche lei però che non avrebbe potuto farlo. Soprattutto nelle sue condizioni... era escluso che accettassi di metterla in pericolo.

Le lasciai un ultimo sguardo. Mi ero assicurato di farla stancare per bene quel pomeriggio. Eravamo andati a trovare i bambini e per di più l'avevo fatta venire ben tre volte attorno il mio cazzo, provandole di ogni minima forza. Così poco prima di cena era crollata sul letto. L'unico rimorso era quello di non essermi assicurato che mangiasse, ma si sarebbe svegliata più che affamata e avrebbe mangiato più del dovuto.

La lasciai dormire in santa pace, mi tirai su la zip della mia solita tenuta da sicario e mi chiusi alle spalle la porta della nostra camera. Indossavo dei pantaloni cargo neri, anfibi e una giacca termica che sembrava quasi fosse fatta di pelle.

«Ha invitato alcuni amici per una cena», sentii Eva informare Reed, quando arrivai nella stanza delle armi. Erano tutti lì a prepararsi, armandosi fino ai denti.

«Perché non lo sapevamo prima?» chiese brusco e teso, visto che era una cosa che non aveva considerato. Avevamo le nostre spie lì, quindi era più che infastidito dal fatto che nessuno l'avesse informato su quel cambio di piani.

«Non lo so», rispose lei, stringendosi la coda alta che aveva. «Forse non hanno potuto comunicarcelo per tempo perché erano impossibilitati».

Lui grugnì e si posizionò sugli avambracci delle lame a scatto, nascoste dalle maniche lunghe. Si girò verso di me, mi scrutò per un attimo accigliato e poi annuì. Era una domanda la sua in realtà, mi stava chiedendo se Megan stesse bene e se stesse dormendo. Quando ricambiai il cenno le sue spalle si rilassarono un po'.

Presi tre pistole e le sistemai in varie parti del corpo. Di solito lavoravo solo con una e portavo con me solo tanti caricatori, ma in quel momento era meglio prevenire che curare. L'ultima volta per me non era andata benissimo.

Io e Reed eravamo incazzati. Così tanto che appena ci eravamo confrontati dopo la bomba che stava quasi per uccidere Megan, avevamo deciso seduta stante di ricambiare il cazzo di favore. Mossi dall'impulsività e dalla rabbia. Per fortuna però il resto della squadra ci aveva fatto ragionare, perché altrimenti avremmo fatto lo stesso gioco di Tanner. Si aspettava esattamente che noi andassimo lì quella stessa sera e probabilmente sarebbe finita molto male.

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