XXX: Il maledetto degli dèi

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Da bambino, Taron aveva sempre trovato affascinanti le storie degli antichi cavalieri che avevano guadagnato con le loro imprese soprannomi importanti, capaci di far drizzare le orecchie a chiunque. I benedetti degli dèi erano coloro che aveva ammirato in silenzio, sospirando davanti all'impossibilità di replicare le loro imprese; al contrario, i maledetti avevano sempre suscitato in lui brividi di terrore e un vago disgusto nei confronti della loro empietà senza fine.

Ironico che fosse diventato lui stesso portatore di una simile nomea.

Mano Rossa.

Prima non avrebbe mai potuto comprendere fino a che punto ci si potesse spingere per sopravvivere, o per compiacere, o per portare a termine il proprio dovere. La parte di lui ancora innocente, sepolta sotto strati di sporcizia e cattiveria, non avrebbe mai voluto scoprire quanto il suo stesso animo potesse rivelarsi turpe, ma ci era voluto poco per svelarlo e il tempo di uno schiocco di dita per farlo suo. Non c'era niente di più importante che trovare un modo per raggiungere Centrum Norr, alla fine, e compiacere Cain sembrava l'unica strada praticabile.

Taron alzò lo sguardo dalla coppa di vino che stringeva tra le dita per portarlo sull'ambiente circostante. Le pareti del vecchio studio in cui aveva passato la notte apparivano logore, mentre gli scaffali un tempo ricolmi di libri erano stati mangiati dalle fiamme, tanto che ne rimanevano solo mozziconi di legno privi di vita, pari ad arti mozzati tra la cenere.

"Che scempio" pensò, tracannando il resto della bevanda. Buttato a terra il bicchiere, si asciugò il volto con un braccio e si alzò; nonostante le gambe malferme, uscì dalla stanza con un sospiro di sollievo, sicuro che la familiarità dell'ambiente sarebbe sfumata durante il resto dell'esplorazione del castello conquistato.

"Sono sempre tutti uguali, in fondo."

Taron procedette cauto lungo il corridoio, in parte confortato dal vociare di sottofondo che rimbalzava tra le pareti, costituito da grida eccitate e piene di vita; riconobbe tra i vari motteggi anche la voce di Litthard, articolata in una serie di frasi di cui non colse a pieno il senso. Col cuore più leggero e le gambe più salde, scese lungo una rampa di scale, sfiorando con le mani le pareti annerite dal fuoco; la pietra era scabrosa sotto le dita, talvolta tagliente, ma lo aiutava a rimanere nel presente, lontano dai pensieri relativi a Saat e a ciò che Cain voleva da lui, nonché dal ricordo di Nives.

"Ora è regina" si disse, socchiudendo le labbra in un'espressione corrucciata. Non poteva più riferirsi a lei con la medesima leggerezza che aveva avuto da giovane, quando la vedeva solo come un'orfana il cui viso era penetrato in lui come una scheggia di vetro acuminato.

Taron scosse la testa, allontanando i lineamenti di Nives dalla mente per tornare a scandagliare l'ambiente. Sentì l'odore acre della carne viva bruciata pizzicargli il naso e, all'improvviso, seppe per certo che il vociare eccitato si sarebbe rivelato nel cortile esterno in un macabro spettacolo a cui suo malgrado si sarebbe unito.

Quando i prigionieri non erano di valore o poco collaborativi non si poteva far molto.

Attraversò l'arcata della porta a passo incerto, ma l'accoglienza calorosa riservatagli dagli uomini lo costrinse a sollevare il capo con fierezza, senza mostrare alcun timore davanti ai corpi carbonizzati ammassati gli uni sugli altri, dai quali proveniva un puzzo fetido che gli risalì fino in testa, nauseandolo. Non distolse però lo sguardo, così come non si fece impressionare dalla decina di uomini e donne appesi alle forche, alcuni dei quali che ancora muovevano le gambe in un ultimo spasmo disperato o rantolavano maledizioni nei suoi confronti. Neppure i cadaveri di alcuni bambini rimasti uccisi durante la battaglia lo sconvolsero – ben diverse erano state le prime volte, in cui aveva versato calde lacrime e provato in tutti i modi a risparmiarli.

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